domenica 11 gennaio 2015

La Grande Inculata


Cari amici e affezionati lettori del Dottor Manser, La Grande Inculata è a vostra disposizione, leggermente rivista e corretta. Se qualcuno è interessato all'edizione cartacea dovrebbe trovare ancora qualche raro esemplare in internet o dall'editore che la pubblicò nel 2006 (Cicorivolta Edizioni). Intanto vi auguro buona lettura e vi ricordo che anche Lo strano caso di gastrite del Sig. Bartezzaghi si può leggere gratuitamente al seguente indirizzo: http://bartezzaghi.blogspot.it. 
Ci si vede su http://dottormanser.blogspot.it e http://blog.libero.it/dottormanser. Un saluto dal Doc.

L'autore presenta e vende La Grande Inculata fresca di stampa durante un mercatino paesano.

sabato 10 gennaio 2015

Capitoli finali (da IV a VII)

IV

Non riuscivo quasi a credere alla mia sbadataggine, al fatto di aver trascurato un suggerimento così chiaro. Forse perché la consideravo inconsciamente un’opera di fantasia. Era scritto nero su bianco tra le pagine de “La Grande Inculata”:

“… non erano rimaste che le ossa, le quali sotterrammo accanto al pozzo.”

    La notte stessa dell’incontro con Gisto mi munii di una pala e di una potente torcia elettrica e andai alla casa di campagna di Gallo.
    Quella sera, prima di partire, avevo raccontato  a Lando tutti i dettagli dell’oscura vicenda. Come prevedevo fece fatica a credere alla storia, poi però, ipotizzando che potesse essere anche solo in parte vera, si disse molto preoccupato per la mia ostinazione nel voler risolvere il Grande Mistero.
    “Stanotte vengo con te, non voglio nemmeno immaginarti nei pressi di una casa sperduta a scavare per cercare uno scheletro” disse.
    “No Lando, devo andare da sola. Ho deciso di non coinvolgere nessun altro all’infuori di me in questa faccenda. Riguarda me e mio fratello. E poi non possiamo sempre lasciare Giulia dai nonni, no?!”
    Conosceva bene la mia testa dura Lando, e dopo una breve discussione si arrese, accettando la mia decisione ma esortandomi a fare molta attenzione.
    Ero dunque sola alle ventidue e quarantacinque di quella sera di ottobre, unico essere umano nel raggio di un paio di chilometri. La casa denotava lavori di ristrutturazione in corso. Mentre scavavo, per scacciare quel vago senso di pericolo – pericolo immaginario, evocato dalla notte e dai fantasmi veri o presunti che vi aleggiavano – mi ero messa a ripetere “sempre resti, resti dappertutto, sempre resti, resti dappertutto…” come fosse un mantra.
    All’una e mezza avevo scavato per un paio di metri nel raggio del pozzo, raggiungendo una profondità di un metro, un metro e mezzo. Quasi stremata e soprattutto rassegnata mi lasciai cadere supina in quella buca spettrale. Il cielo era stellato e l’aria di metà ottobre era pungente, più vicina all’inverno che all’autunno.
    “È tutta un’invenzione, uno scherzo, è… è…è solo un romanzo” mi dissi. “Simone è morto chissà dove e non esiste nessun Robby. Non verrò mai a capo di nulla.”
    Poi d’un tratto mi accorsi che sotto il peso della mia testa appoggiata per terra qualcosa cedeva, faceva clic clac come certi tappi d’alluminio, quelli per garantire l’integrità del prodotto che contengono. Mi alzai di scatto e tolsi un po’ di terra con le mani. Apparve il coperchio di uno scrigno azzurro di metallo leggermente ossidato. Lo dissotterrai con il cuore che andava a mille per l’emozione. Era lungo una trentina di centimetri per venti e quindici centimetri di altezza: non poteva certo contenere uno scheletro, almeno non tutto. Cercai di calmarmi un poco riprendendo il mantra interrotto, poi l’aprii. Al suo interno c’erano due macchinine da corsa (un modellino Formula 1 di Ferrari e uno di  Lotus), una decina di soldatini di plastica, un pupazzetto di peluche di Kermit la rana, tre palline di plastica con le foto di ciclisti dentro (Moser, Saronni e Merckx), di quelle che i bimbi usavano una volta in spiaggia per fare le gare sulle piste disegnate sulla sabbia. C’erano anche un volumetto di fumetti di “Topolino”, uno di “Nonna Abelarda”, una mazzetta di figurine di Barbapapà e un robot con gli arti snodabili, Daitarn III per la precisione.
    Riconobbi quegli oggetti: erano di Simone, non c’erano dubbi. Ricordavo ancora quelle macchinine, anch’io ci avevo giocato insieme a lui; avevo giocato anche con le palline in spiaggia e a causa di quei giornaletti abbiamo fatto interminabili litigate da piccoli. Anche per le figurine litigavamo, perché l’album era di entrambi e lui mi accusava di attaccarle storte (già si notava la sua tendenza al perfezionismo). Che emozione! Trattenni le lacrime, arginando come potevo il fiume di ricordi. Ma passato il turbamento sopraggiunse la confusione. Cosa significava quello scrigno azzurro? Perché mio fratello lo aveva sepolto? E perché proprio lì in campagna da Gallo? Mi persuasi che ci dovevano essere anche le ossa di Robby là sotto. Scavai e scavai, ossessivamente, fino a cadere arresa e stremata. Alle prime luci dell’alba caricai in macchina pala, torcia e scrigno e tornai a casa.



V

Non so cosa pensò Gallo quando scoprì la buca intorno al pozzo, ma qualche ora dopo, in piena mattinata, mi arrivò una telefonata anonima a casa. Una voce metallica disse semplicemente “Contenta adesso?” e riagganciò.
    Benché stremata, quella mattina non ero andata a letto. Lando mi aveva accolto in casa preparandomi un caffè. Mi rimproverò di aver lasciato a casa il cellulare. Disse che non aveva chiuso occhio tutta notte e almeno un paio di volte aveva pensato seriamente di raggiungermi, poi però aveva rinunciato ricordando il giuramento che gli avevo fatto fare di non intromettersi nella faccenda. Sono una ragazza dolce e gentile, ma quando dico una cosa è quella e guai a contraddirmi!
    Davanti alla tazza fumante di caffè gli mostrai lo scrigno.
    “Certo che tutta questa storia è davvero bizzarra” mi disse Lando.
    “Già” ribattei laconica io.
    Mentre distrattamente sfogliavo il “Topolino” che c’era nella scatola, dal suo interno cadde sul pavimento un foglio piegato in due. Lo aprii e vidi questo disegno…

 



    Una lapide! Una lapide a forma di boccale di birra! Era opera di Simone, non c’erano dubbi. Aveva segnato pure l’anno di nascita. Probabilmente era il suo progetto per una tomba su misura da abbinare all’aforisma “perfetto” che da anni cercava di creare. Non che mio fratello ci tenesse troppo a farsi seppellire; voglio dire, a lui sarebbe andato bene anche farsi cremare, o essere gettato nell’immondizia per quanto gliene importava. Visto però che non voleva privare chi gli voleva bene di ricordarlo davanti a un feticcio commemorativo, il fratellone aveva elaborato il suo prospetto.
    Dopo quel giorno di ottobre in cui trovai lo scrigno, gli eventi si susseguirono rapidamente. Un giorno mi giunse una lettera. Notai subito il francobollo che rappresentava un’aquila in volo. Regno di Utopia c’era scritto sullo sfondo di un cielo azzurro. Aprii la busta con il cuore in gola e lessi:

Cara Signora Arianna,
sono venuto a conoscenza delle sue ricerche. Se si chiede come ho potuto glielo spiego subito: la rete spionistica di Utopia è la più avanzata del mondo. So quello che le ha scritto suo fratello e so che lei è una brava persona. Sono certo che saprà mantenere il segreto, ma del resto, chi le crederebbe?!
Forse si aspetta che la aiuti a risolvere il Grande Mistero. Ebbene, non posso. Non posso perché adesso Simone appartiene alla storia, al passato, è un po’ come il personaggio di un romanzo fantastico. Ha ucciso o no Robby? CHE IMPORTANZA HA ORMAI? Ha voluto confessare un efferato omicidio o sotto Robby si nascondeva una metafora? Voleva semplicemente liberarsi di un pesante segreto o inviare un forte messaggio alle poche persone intelligenti che vivono nel mondo fuori da Utopia? Lasci perdere cara Arianna. Lasci che Simone se la rida di tutti là dov’è ora, nel mondo degli spiriti. E finché è in tempo, venga a stabilirsi nel nostro regno con la sua famiglia. Deve semplicemente andare dal professor Moruzzi. Già, proprio lui! In realtà Moruzzi è il nostro ambasciatore in incognito, con la missione di sondare possibili degni visitatori di Utopia. Il Vicagon era semplicemente una caramella dall’effetto placebo, un pretesto per convincere Simone a trovare la speranza che non potrà mai esserci lì.
Anche Moruzzi  è già a conoscenza della sua ricerca di verità. La accoglierà con piacere e le consegnerà tre biglietti aerei, uno per lei, uno per suo marito e uno per sua figlia. È una decisione non facile da prendere e per questo ha tutto il tempo che vuole. Ci pensi bene.
Non ho altro da dirle, se non che il nostro piccolo regno la aspetta.

Con piacere,
Dottor Sensore

Shock! Che altro potevo provare? Mostrai la lettera a Lando.
    “Allora Utopia esiste!” esclamò. “Peccato che per il momento non abbia ferie…”
    “Non hai capito Lando. Chi va su quell’isola non può più tornare. Simone ci ha provato ed è morto. Il biglietto è di sola andata.”
    “Ma come possiamo mollare tutto e andare in questo luogo sconosciuto che, a quanto pare, è una specie di paradiso?”
    “Appunto, come possiamo non farlo?”
    Discutemmo per giorni. L’unico freno che tratteneva sia me che Lando era il non trascurabile fatto di dover lasciare per sempre i miei genitori io e sua sorella e sua mamma lui, familiari ai quali eravamo fortemente legati. Ne parlai con Moruzzi un giorno all’ospedale Maggiore di Bologna. La sua risposta fu gentile ma risoluta: No, non potevano venire con noi. Pochissimi hanno il privilegio di andare a Utopia, se fosse diversamente, l’isola diverrebbe “umana” e questo la distruggerebbe.
    “Mi dispiace davvero tanto e vi capisco” concluse il professore. “Sta a voi decidere comunque. Nessuno vi obbliga a partire. Pensateci con calma e quando avrete deciso, venitemi a trovare.”
    Decidemmo. Gli anni passano a una velocità frastornante, il mondo peggiora sempre di più man mano il progresso avanza, gli uomini regrediscono moralmente, intellettualmente e spiritualmente. Avidità, intolleranza, guerre, terrorismo, alienazione, ignoranza… tutto porta a una sola conclusione: la distruzione, il Vuoto, quello che Simone paventava e che lo ha ucciso.
Decidemmo dunque. Ma prima dovevo sistemare alcune faccende.



VI 

Con la complicità di Moruzzi organizzammo il funerale di Simone. Mediante una complicata alterazione di documenti riuscì a farlo risultare deceduto quattro anni prima in un incidente aereo in Peru. Dopo una ricerca svolta da alcuni 007 di Utopia era venuto a sapere che sul volo 825 di una trasandata compagnia aerea peruviana – volo da Lima a Cuzco – erano morte carbonizzate venticinque persone dopo che l’aereo aveva preso fuoco in fase di decollo, e che tra queste venticinque persone due non erano state identificate; così prese la palla al balzo e mi telefonò per farmi sapere che avremmo potuto inscenare il decesso di Simone. Fui d’accordo, anche perché così i miei genitori avrebbero smesso di soffrire credendo Simone chissà dove, forse vivo o forse morto, forse malato o forse guarito. Negli ultimi tempi avevano una sempre più flebile speranza di rivederlo. Almeno così sapevano dov’era ed erano sicuri che non soffriva più come in vita.
    Il giorno prima del funerale mi giunse un’altra lettera del dottor Sensore.

Cara Arianna,
le spedisco una fotografia che fece suo fratello un giorno qui a Eldorado. Prima di tornare nel vostro mondo, mi confidò che se fosse morto, avrebbe voluto questa immagine sulla sua lapide. Dopo anni di autoscatti, ne aveva trovato uno che gli piaceva particolarmente.
A presto,
Dottor Sensore

Allegato al foglio c’era la foto. La lapide l’avrebbero posata una settimana dopo la sepoltura. Fu difficile trovare una ditta che volesse realizzarla con la forma di un boccale di birra, ma alla fine Lando ne trovò una.
    Il giorno del funerale c’erano tante persone. Degli amici ancora in vita che aveva menzionato ne “La grande Inculata” come coautori dell’omicidio notai solo Gisto e Mastro Marasca. Osservandoli pensai che erano invecchiati molto rispetto pochi anni prima. Pensai, mentre il corteo funebre si dirigeva al cimitero, che stavo vivendo una storia davvero irreale. Pensai che stavo seppellendo le ossa di uno sconosciuto al posto di quelle di mio fratello e che mio fratello mi mancava tantissimo, ma sentivo la sua presenza incredibilmente tangibile. Pensai che aveva ragione il dottor Sensore: che importava sapere se Simone e i suoi amici avevano ucciso Robby? Sapere, sapere, sapere… viviamo per sapere. Ma sapere cosa? Anche il più intelligente degli uomini, il più grande filosofo o intellettuale, l’artista più sublime, morirà senza sapere. Chiunque creda di sapere, arriverà a esalare l’ultimo respiro senza in realtà aver mai saputo nulla.
    Decisi che Simone era innocente, che la sua “Grande Inculata” era solamente la prima parte di un romanzo che se non fosse rimasto vittima del Vuoto che lo circondava, avrebbe finito lui stesso e non io, dopo mesi di indagini ed eventi difficili da credere. Decisi che avrei parlato di Utopia a mio padre e mia madre. E insieme a Lando ne avremmo parlato con sua madre e sua sorella. Mentre Simone veniva calato nella fossa, decisi che sì, avrei fatto pubblicare questa storia, dove si parla in fondo di personaggi irreali, irreali in quanto passati, morti, seppur vivi. Nessuno aveva mai denunciato la scomparsa di Robby, nessun parente si era mai fatto vivo. Robby era una metafora per lasciare un messaggio. O per non dire proprio niente. Che Robby sia vissuto o che non sia mai esistito, NESSUNO LO SAPRÀ MAI. Decisi, mentre due becchini gettavano le ultime badilate di terra, che l’aforisma per mio fratello l’avrei scelto io:

CERTI INDIVIDUI NASCONO PER SEMINARE
NELLA SPERANZA CHE QUALCUNO RACCOLGA

    Quando parlammo con i nostri parenti del viaggio che intendevamo fare, non credettero subito all’esistenza di Utopia, ma mi videro così entusiasta e coinvolta nella descrizione (immaginaria) del luogo che alla fine si convinsero della sua esistenza. Non dicemmo loro del fatto che non saremmo più tornati; in fondo avevamo sempre la piccola speranza che un giorno avrebbero “guadagnato” il biglietto per raggiungerci. Furono le parole di mia madre a darmi lo stimolo definitivo per partire:
    “Fate bene ragazzi miei” disse. “Qui si respira la stessa aria che si respirava prima della seconda guerra mondiale… Crescete Giulia lontano dalla follia!”
    Andammo da Moruzzi un pomeriggio di dicembre. Era quasi Natale e fiocchi di neve finissima cadevano dal cielo sopra Bologna. Ci diede i biglietti e ci disse che avremmo finalmente vissuto nel mondo come dovrebbe essere . L’aereo per Utopia partiva da Roma e avrebbe fatto innumerevoli scali, fino a che a bordo non fossero rimasti solo i passeggeri prescelti per l’atterraggio sul suolo del Regno. Il volo era previsto per il giugno dell’anno successivo.



VII

E così siamo giunti alla fine, anche se sarebbe più esatto dire all’inizio. Domani io, Giulia e Lando vedremo Utopia.
    Da dicembre – quando Moruzzi ci ha consegnato i biglietti aerei – ho svolto un’incessante ricerca di un buon editore che pubblicasse questa storia. L’ho trovato. È stato da subito entusiasta della trama: “Geniale!” ha sbottato al telefono una volta letto “La Grande Inculata”, “una delle storie più fantasiose che mi sia mai passata tra le mani.”
    Siccome al capitolo VI, quello intitolato RITORNO AL PASSATO, riferendosi a “Tony Stantuffo” Simone scrive “Spero che almeno dopo la mia morte qualche editore lo consideri”, il gentile editore ha voluto assolutamente leggere anche quella storia e dopo aver esclamato “Geniale! Ancor più fantasiosa e surreale de “La Grande Inculata”” mi ha chiesto se volevo pubblicarla prossimamente. Ovviamente ho accettato, così tra qualche mese potrete leggere le fantastiche avventure di Tony detto Stantuffo.
    Ora devo lasciarvi per andare al cimitero, dove la lapide di Simone è ancora senza foto. Ho atteso tutto questo tempo apposta, come se sentissi che fosse questa la volontà di Simone. Da oggi, chiunque passerà davanti al luogo dove riposano le sue “false” spoglie mortali, potrà rendersi conto che grande artista fosse mio fratello osservando la foto che mi spedì il dottor Sensore. Questa.







PARTE SECONDA
di Arianna Skreta

I

E così Simone se ne andò. Sono passati cinque anni da quel giorno, quando dopo essere andato all’ospedale dal professor Gordiano Moruzzi e aver assunto il Vicagon, partì per quel viaggio che nelle speranze di tutti noi doveva guarirlo dal Morbo di Giacomo Kellerman. Ne sono invece passati quasi due da quando mi giunse questa lettera:

Cara Arianna,
ho saputo che sei diventata mamma di una splendida bimba che hai chiamato Giulia. Non sai quanto desidererei prenderla in braccio, coccolarla, baciarla. Non puoi immaginare quanto ho pregato (un ipotetico Dio della Giustizia Terrena) perché un giorno potessi diventare zio, giacché con il mio Male non era auspicabile diventare padre e far soffrire una creatura per avere un genitore allergico al mondo, un disadattato che non dava nessuna garanzia.
Purtroppo in tutto questo tempo non ho avuto occasione di scrivervi e come sai mi era stato assolutamente vietato avere contatti verbali con la mia vecchia esistenza per tutta la durata del “viaggio”.
Da quando sono partito ho visitato luoghi magnifici in continuazione: ho visto l’Europa, il Sud America, l’Africa, sono stato in Alaska, Patagonia, Nuova Zelanda, Australia. Sembrava quasi che l’effetto della medicina si intensificasse man mano viaggiavo. Più ANDAVO più stavo bene.
Ho incontrato persone fantastiche, persone il cui contatto non minacciava la mia vita come lì, a casa.
Quel vagabondare per il mondo mi ha portato a scoprire un luogo incredibile, sul quale purtroppo non posso dilungarmi, né tanto meno indicarti dove si trovi per motivi che capirai più avanti. Ti faccio però un approssimativo schizzo dell’isola se mai un giorno tu o Giulia doveste atterrarvi.

Nota: immagine presa dal libro.

La magnifica città in cui sono stato si chiama Eldorado, nel piccolo regno di Utopia. Qui la gente si rispetta, è tollerante, altruista. Qui non esistono eserciti e neppure leggi, perché in un paradiso dove il sentimento di amore e di giustizia è la colonna vertebrale degli abitanti, non c’è alcun bisogno di leggi, regole, se non quelle che ognuno si dà nel rispetto della libertà collettiva. Qui le persone sono intelligenti, acculturate, educate, generose, gentili, vivaci. In una tale società non esiste ipocrisia, invidia, odio. Non esiste la tv spazzatura che abbiamo noi. A dire la verità a Utopia non esiste proprio la tv. A Eldorado c’è un Re, Re Klawn III, un Re giusto che regna con il cuore e il cervello senza pensare ai suoi interessi. A Eldorado ognuno veste con un suo stile, stile che non segue nessuna moda. Pensa che nella lingua utopica non esiste la parola “moda”! Non esiste neppure la parola “eccentrico”, perché a modo suo ognuno è eccentrico; più si è diversi più si è uguali a Utopia, mica come da noi che tendiamo a uniformarci agli schemi, alle mode, ai cliché, ai diktat dei governanti, dei plutocrati, dei telepadroni. A Utopia non esistono religioni e l’unico Dio adorato è il Dio che ognuno ha dentro di sé. Le ideologie sono considerate sciocchezze obsolete per popoli medievali. Re Klawn III di Eldorado è uno dei sette Re delle sette città che compongono l’isola autarchica di Utopia, tutti filosofi di finissimo acume e sconfinato sapere. In questo regno l’arte, la letteratura, la musica, la scienza, hanno raggiunto livelli che nel mondo che conosciamo noi potrebbero essere pronosticabili solo per il 25° secolo.
A Eldorado conobbi amici meravigliosi. Uxor e Balzar erano fratelli; il primo era professore di filologia all’università di quell’aurea città in cui ho soggiornato, il secondo faceva lo scultore a Sun City, una delle sette sorelle. Grazie a loro capii che l’effetto del Vicagon era terminato da diverso tempo, già molto prima che giungessi a Utopia (il professor Moruzzi aveva detto che l’effetto del farmaco sarebbe durato circa un mese ma non saprei dire quando ha cessato di agire: stavo così bene lontano da casa che non me ne accorsi!). Mi sentivo guarito, ma volli averne la certezza partecipando alle sedute di un noto psichiatra, luminare nel suo campo. Gli raccontai del Morbo di Giacomo Kellerman e anche del trauma causato dall’assassinio di Robby. Il dottor Sensore – così si chiama – constatò la mia “fase temporanea di benessere”, diffidandomi dal tornare da dove ero venuto. Mi disse che sì, la sclerosi antropofobica progressiva poteva dirsi vinta, ma rimaneva comunque latente dentro di me e se avessi rincontrato il Vuoto che regna lì, nel nostro mondo, non sarei sopravvissuto. Ormai ero uno di Utopia e quando uno diventa Utopico, non può più tornare indietro.
Sensore cercò di analizzare anche il trauma Robby. Ti starai chiedendo cos’è il trauma Robby. Ebbene carissima Ari, nel mio appartamento troverai una cassaforte dietro la stampa di William Blake “Elohim crea Adamo”, nella mia camera da letto. Lì è contenuto, oltre ai miei diari, gli autoscatti e gli strati di polvere che come sai collezionavo, anche un dattiloscritto intitolato “La Grande Inculata”, dove confesso un atroce delitto commesso con i miei amici anni fa. Contiene rivelazioni scabrose. Metto tutto nelle tue mani. Anche la decisione di pubblicare quelle pagine o meno. Non importa cosa farai, io… sto morendo! Già, sconfitto il Morbo di Giacomo Kellerman e trovato il paradiso di Utopia, ho commesso l’ennesimo e più grave errore della mia infausta vita. Non ero d’accordo con il dottor Sensore sul fatto di non poter più tornare a casa. Mi sentivo talmente bene, ero talmente euforico che non potevo credere alle sue parole. Volevo dimostrare in primis a me stesso che avevo imparato a lottare contro il Mostro, essendo stato in un luogo che mi aveva colmato di un piacere spirituale talmente enorme da farmi sentire come un cavaliere invincibile che si appresta a tagliare la testa del Drago e affrancare così gli esseri umani dal suo giogo opprimente.
Discussi della cosa con Uxor e Balzar e anche loro si dissero scettici. Nessuno dopo essere stato in una delle città del Regno di Utopia era mai andato o tornato nel mondo. Temevano una forte reazione negativa, sia fisica che psicologica. Parlammo molto, trascorremmo interminabili serate a valutare i pro e i contro; siccome Uxor era curioso di studiare la lingua e la letteratura del nostro mondo per poi raccontarla ai suoi studenti, e Balzar voleva vedere dal vivo le sculture che non appartenevano al Regno, alla fine li convinsi a seguirmi nel viaggio. Tanto, come dissi loro, saremmo rimasti solamente un anno… Devi infatti sapere che a Utopia atterra un solo aereo all’anno (quello che avevo preso anch’io) con poche decine di “fortunati” a bordo e lo stesso aereo riparte in giornata con il solo equipaggio. Nessuno è talmente pazzo da lasciare Eldorado, o la capitale Montmorency, o Sun City, o Queensport, o New Bay, o Saint John, o Santa Florida. Noi fummo i primi a compiere il viaggio inverso dopo essere stati (io qualche mese, i due fratelli tutta la vita) a Utopia.
Partimmo dunque con quell’unico volo annuale. All’inizio della lettera ho evitato di darti coordinate per individuare sulle carte geografiche Utopia: il motivo è che non voglio che venga scoperta e quindi distrutta dall’uomo, ma in effetti è IMPOSSIBILE scoprirla se non dopo un lungo viaggio, innumerevoli esperienze e tantissima fortuna.
Da Montmorency, dove c’è l’aeroporto, atterrammo a Wellington in Nuova Zelanda; da lì giungemmo a Roma con un altro paio di scali. Non vi telefonai, volevo farvi una sorpresa dopo aver mostrato a Uxor e Balzar le bellezze della capitale. Ma dopo poche ore, in un albergo della periferia cittadina, Uxor cominciò ad accusare nausea e capogiri, seguito poco dopo da Balzar. Chiamai un taxi e li accompagnai all’ospedale. Intrappolati nel traffico ci mettemmo tre quarti d’ora ad arrivare. Venimmo accolti da infermieri sgarbati e attendemmo due ore prima che uno spazientito dottore li ricevesse nel suo ambulatorio del pronto soccorso. Dopo una visita sbrigativa e una flebo di vitamine li dimise prescrivendogli un paio di giorni di riposo.
Tornato in albergo anch’io ho cominciato ad avere nausea e capogiri, anche se in maniera meno accentuata. Con i due fratelli a letto privi di forze, ho tentato di telefonare in portineria perché mi chiamassero un’ambulanza ma le forze mi hanno abbandonato completamente prima di tirare su la cornetta. Sono svenuto dopo avere avuto una crisi epilettica tipica del Morbo di Giacomo Kellerman. Quando ho ripreso conoscenza, Uxor e Balzar giacevano morti nei loro letti. Avevo riacquistato un po’ di forza e resomi conto del mio imperdonabile errore (credere me stesso e i miei amici immuni) ho deciso di scriverti questa lettera. Ora sono qui, in questo hotel di Roma e sto per morire, questa volta davvero. Manca poco. Eppure dovevo ben saperlo che una volta vista Utopia non si può tornare indietro!
Cara Arianna, ti ripeto: FAI DE “LA GRANDE INCULATA” CIO’ CHE LA TUA COSCIENZA TI SUGGERISCE. Forse il mondo deve sapere o forse no.
Vi ho sempre amato con tutta l’anima, te, papà, mamma e ora Giulia, anche se non l’ho mai conosciuta e mai la conoscerò. Crescila con tutto l’amore possibile, proteggila dall’avidità e dalla cattiveria degli uomini, tienila lontana dall’ignoranza. Spero con tutto me stesso che diventi una ragazza intelligente, curiosa, ironica… Ma no, non lo spero, LO SO che lo diventerà.
Mi sento tanto debole. Un abbraccio infinito.

Vostro Simone

P.S: Con le ultime forze rimastemi ti scrivo che è appena entrato un agente segreto di Utopia. Gli lascio l’incarico di spedirti questa lettera. Sai, la nostra era una missione in incognito (i nostri passaporti erano falsi) e il compito dello 007 è quello di far sparire i nostri corpi senza lasciare traccia. Utopia deve rimanere un’utopia. Non dobbiamo permettere agli uomini del nostro mondo di colonizzarla con la loro stupidità.

Potete ben immaginare che la prima reazione che ebbi leggendo quella lettera fu di shock, incredulità. Inizialmente pensai a uno scherzo (quando era più giovane Simone era un vulcano di idee nel realizzare scherzi a amici e parenti), ma rileggendo altre cinque o sei volte quelle parole mi convinsi che l’avventura di mio fratello era stata davvero vissuta e purtroppo era giunta a termine. Il Morbo di Giacomo Kellerman alla fine aveva vinto.
    Quello che mi aspettava da quel momento in poi lo scoprirete leggendo del mio viaggio nei misteri del passato di Simone e dei suoi amici, un’indagine alla ricerca della verità su Robby e dell’esistenza di Utopia. Quando a casa di Simone lessi le pagine de “La Grande Inculata” mi ci vollero ore per riprendermi dalla violenza di quelle rivelazioni; non potevo credere a ciò che era accaduto nella casa di campagna di Gallo. Simone era uno scrittore fantasioso – almeno io lo reputavo tale – così pensai che sicuramente stava creando uno dei suoi racconti o romanzi migliori. Mio fratello era un’anima pura (uno dei motivi che secondo me lo avevano fatto ammalare), un uomo troppo buono e intelligente per compiere certe efferatezze, d’altro canto c’era una lettera che parlava chiaro e tutti i particolari che conoscevo della sua vita inseriti ne “La Grande Inculata” erano reali.
    Mi aveva lasciato un compito oneroso, decidere cioè se pubblicare o meno quell’incipit di romanzo (o storia vera di una tragedia). Dovevo quindi indagare sul vero o presunto omicidio prima di prendere una decisione.
    Decisi, per il momento, di non far parola con nessuno della lettera, de “La grande Inculata” e delle mie ricerche. La fine del viaggio di Simone coincise con l’inizio del mio. Avevo paura, non ero pronta per un’avventura simile, ma come diceva lui, quando la corrente ti trascina, lasciati andare. Da qualche parte arriverai.


II

Come ho già accennato, la prima cosa che feci dopo aver letto la lettera, fu  recarmi immediatamente all’appartamento di Simone. Ricordo che mi trovavo a casa con Giulia e le stavo dando la pappa quando suonò il citofono e il postino mi consegnò la raccomandata. Finii di dare da mangiare alla bimba, poi aprii la busta. Riletto più volte il suo contenuto e scemato lo sgomento telefonai a Villa Skreta per chiedere a mamma se poteva tenere Giulia per un po’. Lando era a lavorare così portai il nostro tesoro ai nonni e mi precipitai a casa di Simone.
    Nella cassaforte dietro la stampa di Blake trovai quello che mi aveva indicato: gli autoscatti, i diari, gli strati di polvere e “La Grande Inculata”. Diedi un’occhiata agli autoscatti, chiedendomi se negli ultimi tempi Simone fosse cambiato molto o se il fatto di aver trovato una dimensione su misura ne avesse accentuato quell’espressione intensa e sognante che lo caratterizzava. Cominciai quindi a leggere “La Grande Inculata” con attenzione, dopodiché, giunta al termine, mi sdraiai sul letto. Tutti gli aforismi che mio fratello aveva segnato sui muri sembrarono vorticare velocissimi e per poco non persi i sensi. Poi chiusi gli occhi e quando li riaprii tutto parve essere tornato alla normalità.
    Trascorsi le due ore successive a vagare per l’appartamento in cerca di indizi. Mi sentivo come trasportata in un film di detective. Su un taccuino che trovai in un cassetto annotai alcuni aforismi che il buon Mone aveva scritto in rosso (mentre la stragrande maggioranza erano scritti in nero) sulle pareti della stanza. Tra questi:

“Scrivere non è una professione: è una vocazione all’infelicità. Penso che un artista non possa mai essere felice.” (Georges Simenon)

“Nessuno può sconfinare in un altro per il semplice motivo che nessuno può accedere a se stesso.” (Paul Auster)

“La gente di solito si rifugia nel futuro per sfuggire alle proprie sofferenze.” (Milan Kundera)

“Quando si tende a fare le cose che fanno tutti gli altri si diventa tutti gli altri” (Charles Bukowski)

“La fantasia è madre della soddisfazione, dell’umorismo, dell’arte di vivere”(Hermann Hesse)

“Se noi riconosciamo che errare è dell’uomo, non è crudeltà sovrumana la giustizia?” (Luigi Pirandello)

“Il giorno in cui noi intellettuali o artisti stimeremo qualcuno vorrà dire che abbiamo l’ego fuso e quel giorno smetteremo di essere intellettuali o artisti” (Manuel Vazquez Montalban)

“È più facile morire di niente che di dolore. Al dolore ci si può ribellare, al niente no.” (Susanna Tamaro)

“Quando compi trent’anni diventi tu il peggior nemico di te stesso.” (Chuck Palahniuk)

“Non c’è nulla di più tragico, per l’individuo come per i popoli, dell’abitudine alla mediocrità.” (Francesco Alberoni)

“Riempiti gli occhi di meraviglie, vivi come se dovessi cadere morto fra dieci secondi!” (Ray Bradbury)

“Non credo che si debba amare il proprio lavoro. Se lo si amasse, non sarebbe più un lavoro.” (John Updike)

“Quando non si riesce ad avere quel che si merita in un mondo, lo si cerca in un altro” (Voltaire)

“Non è difficile essere solo se sei povero e fallito. Un artista è sempre solo, se è un artista. No, un artista ha bisogno di solitudine.” (Henry Miller)

“Sono sempre stato del parere che il lavoro duro è semplicemente il rifugio delle persone che non hanno assolutamente niente da fare.” (Oscar Wilde)

“La maggior parte degli uomini muoiono prima di essere nati compiutamente. Essere creativi significa portare a compimento la propria nascita prima di morire.” (Erich Fromm)

“Ricco è l’uomo che è molto, non l’uomo che ha molto!” (Karl Marx)

“Chi va in giro lecca e chi sta a casa la lingua je se secca.” (Pier Paolo Pasolini)

    Mi fermo qui, anche perché gli aforismi segnati in rosso saranno stati centinaia. Sul block notes ne trascrissi un’altra ventina. In ognuno c’era qualcosa di Simone. In fondo, se li aveva evidenziati dovevano averlo colpito, lasciando così intravedere la sua visione della vita. Tra tutti, ne trovai uno sottolineato, oltre che scritto in rosso:

“Ci sono molti morti nella mia vita, ma più morto di tutti è il ragazzo che io fui.” (Georges Bernanos)                     

    Lo sottolineai anch’io, con l’intima convinzione che potesse essermi molto utile in futuro. Più tardi, dopo aver frugato nei cassetti e negli armadi passai a controllare la libreria. Ci saranno stati almeno duemila volumi e mi dissi che era proprio un personaggio stravagante uno che collezionava solo i libri che non aveva apprezzato.
    Ad un tratto squillò il cellulare: era mamma, preoccupata per la mia assenza prolungata. Le avevo detto che andavo a fare un po’ di spesa e Giulia, che all’epoca aveva otto mesi, cominciava ad essere nervosetta. Rimisi tutto in ordine nella cassaforte e mi ripromisi di tornare il giorno dopo.
    La mattina seguente – un venerdì – dato che i nonni erano impegnati e Lando era come sempre al lavoro nel suo ufficio di geometra comunale, tornai all’appartamento con Giulia. Una volta addormentata ripresi il mio lavoro investigativo. Aprii la cassaforte con la combinazione che Simone  mi aveva lasciato sotto il poscritto della lettera e cominciai a sfogliare i diari. Quello che traspariva da quelle pagine era senz’altro lo spirito di mio fratello, uomo sensibile, sincero, profondo, fantasioso, sognatore, introspettivo, sarcastico, autoironico, intelligente, ma anche insicuro, pessimista, incostante, accidioso, introverso, velenoso con chi gli faceva dei torti, perfezionista, asociale per indole e per forza a causa del Morbo (“vado molto fiero della mia asocialità innata” ha scritto su un diario). Si sentiva un artista ma si vergognava ad affermarlo perché diceva che la gente non avrebbe capito il suo concetto di artista, cioè un uomo con la tempesta dentro che rischia quotidianamente di morire se quella tempesta  non trova una valvola di sfogo per uscire. Nelle pagine dei diari questa visione era lampante, come il pensiero ricorrente dell’ingiustizia della vita, che premia spesso persone che non hanno nessun valore ma si sanno vendere e schiaccia chi ha talento, cervello e cuore ma non sa come smerciarli.
    Simone scriveva e sobillava per VIVERE, ma se nessuno ti capisce o peggio, ti ascolta, rischi comunque di implodere. Chissà, anche questa potrebbe essere stata una delle cause della comparsa del Morbo di Giacomo Kellerman, oltre alla fragilità del suo carattere.
    Per giorni interi analizzai mio fratello dai diari. A volte portavo con me Giulia, altre volte ero sola; non dicevo a nessuno dove andavo.
    Com’è ovvio, per la natura stessa di ogni diario segreto, trovai al suo interno cose che non avrei mai immaginato Simone pensasse o facesse. Per esempio rimasi molto male quando lessi che aveva fatto uso seppur saltuario di cocaina, o avesse fantasie erotiche su quella “poco di buono” della mia ex collega alle poste Matilde, o fosse stato a letto con la Blatta insieme a Mastro Marasca (fatto inserito anche ne “La Grande Inculata”), o che pensasse che persone a lui care non lo avevano mai incentivato, anzi, gli avevano messo sempre il bastone tra le ruote ogni qualvolta voleva prendere una decisione. Dopotutto cos’è un diario se non la persona senza maschere? Niente come un diario ti mostra lo spirito che abita in un individuo.
    Una volta letti tutti i libri che componevano la sua diarioteca, mi ero costruita la base per partire alla scoperta di quello che chiamerò d’ora in poi il Grande Mistero.



III

Per una settimana dunque, dal momento in cui ricevetti la lettera, indagai sulla vita di Simone vagliando gli indizi che trovai nel suo appartamento. Lessi e rilessi “La Grande Inculata”, esaminai approfonditamente i diari, lessi i suoi racconti e valutai da una nuova prospettiva i suoi libri “Cavalcando un fenicottero nano deforme” e “Dioniso misantropo”, cercai riscontri negli aforismi, nei brutti libri della biblioteca, osservai gli strati di polvere, implorai una rivelazione agli autoscatti, ma la misteriosa trama di questa vicenda surreale non si dipanava. Trovai in un cassetto della scrivania un elenco di libri belli che aveva letto e li comprai. Nei giorni a seguire ne lessi il più possibile, partendo da “Opinioni di un clown” di Boll, fino a “Gabriella garofano e cannella” di Amado, senza però trovare nessi con l’isola di Utopia o i fatti della casa di campagna. Cercai riscontri nella vita degli autori letti e negli autori degli aforismi ma incontrai solo nebbia. La mossa successiva fu parlare con i ragazzi che avevano partecipato alla fatidica cena.
   Da qualche mese, prima di rimanere incinta di Giulia, mi ero licenziata dal posto di impiegata postale e mi ero dedicata al mestiere di casalinga, per cui quando i nonni tenevano la bimba, avevo molto tempo a disposizione, tempo che in quel momento impiegai contattando gli amici di mio fratello.
    Il primo che incontrai, recandomi a casa sua dopo aver fissato un appuntamento per telefono, fu Ezio Buzzati detto Losco. A quanto ricordo e da quel che scriveva Simone sui diari, Losco era uno degli amici con i quali mio fratello si intratteneva più volentieri a parlare, soprattutto di argomenti seri o culturali. Rimase paralizzato dal bacino in giù dopo un incidente, quando il presunto (per ora) delitto era già stato perpetrato. Si dice fosse fatto di ecstasy e probabilmente anche dopo la disgrazia capitatagli non aveva smesso di abusare di droghe. Lo trovai in stato confusionale. Era stato mio compagno di classe dalle elementari alle medie e vederlo in quelle condizioni mi fece una pena indescrivibile. Non mi fu di grande aiuto; biascicava parole incomprensibili inframmezzate dall’interiezione “vattelappesca”. Quando tirai fuori il nome Robby il suo volto venne colto da un bagliore di spavento, l’unico cenno espressivo che quei lineamenti devastati da cicatrici riuscirono a esternare. Dopo mezz’ora di inutili domande e astruse risposte, salutai Ezio con una tristezza infinita nel cuore.
    Il Trucido, soprannome di Teodoro Navarro, era morto suicida quando Simone era ancora con noi. Contattai suo fratello Pasquale, che molto gentilmente acconsentì di parlarmi del Teodoro degli ultimi tempi prima dell’insano gesto.
    “Era molto cambiato. Non rideva più, parlava poco. Non ci ha mai detto se era successo qualcosa nella sua vita privata da indurlo in quello stato di depressione; dopotutto la depressione non ha certo bisogno di “motivi apparenti” per fare la sua comparsa, può colpire anche persone la cui vita sembra felice. Teo era felice, lo posso dire senz’ombra di dubbio: una bella fidanzata, un lavoro che amava, una famiglia unita che lo stimava, amici… Di punto in bianco il buio. Fu una mazzata per noi, per i miei vecchi in particolare. Lasciò un biglietto…”
    A quel punto Pasquale sparì in qualche vano dell’appartamento che divideva con la moglie e i due figli piccoli e si ripresentò con il biglietto. Me lo porse.


Nulla potrà tornare come prima.
Non posso più vivere così.
                                                                                         Addio, Teo

    “E di Simone? Non avete più saputo nulla da allora, da quando partì per curarsi?” mi chiese mentre ancora meditavo su quelle parole.
    “No, non abbiamo più avuto sue notizie. Ma sono certa che tornerà.”
    Lasciai Pasquale dopo un’altra oretta ringraziandolo per il tempo concessomi. A parte il biglietto e la repentina metamorfosi di Teodoro non ottenni molte informazioni interessanti.
    Dalla partenza di Simone, avvenuta tre anni prima – se partiamo dal periodo in cui mi misi a far chiarezza sul Grande Mistero – altri tre suoi amici erano morti: Valerio Resca (Turtlén), Michele Fermi (Zio) e Andrea Bongiovanni (Bongio).
    Turtlén era alcolizzato e morì di cirrosi neanche un anno dopo l’inizio del viaggio di Simone. Tre settimane dopo il funerale di Valerio, Zio venne investito da un camper mentre era fermo sulla corsia d’emergenza dell’ autostrada: era sceso per controllare un pneumatico che credeva sgonfio ed era stato falciato. Bongio lo ha portato via un infarto uno o due mesi prima l’inizio delle mie indagini, a soli trent’anni, mentre era impegnato con le pratiche di divorzio con Cristina.
    Dai parenti di Zio e Turtlén ricevetti un trattamento poco cordiale. Parevano infastiditi da quella mia intrusione nel privato delle loro tragedie, però riuscii ugualmente a sapere dalla mamma di Valerio che l’inizio della sua passione per l’alcol coincideva all’incirca con il suicidio del Trucido e la tossicodipendenza di Losco.
    Mi interessai in modo particolare al caso di Bongio, proprio colui che Simone aveva per così dire risparmiato nel suo racconto-confessione, descrivendolo come l’unico non pienamente colpevole nell’omicidio di Robby.
    Mi vidi con Cristina ai giardinetti pubblici di Castello d’Argile. Aveva con sé Helenio che stava giocando con due amichetti.
    “Stavamo per divorziare Arianna, il nostro amore era finito da tempo nonostante indossassimo una maschera quando uscivamo, per fare sembrare il nostro rapporto ancora idilliaco. Da qualche anno poi, Andrea era scorbutico, arrogante, mi apostrofava con parole volgari e si innervosiva per un nonnulla.”
    “Sai dirmi esattamente, se ricordi, quando cominciò ad essere così?” chiesi.
    “Non saprei, quattro, cinque, sei anni fa. Posso dirti che dalla morte di Teodoro Navarro in poi è iniziato un inarrestabile logorio del nostro rapporto. Non c’era più rispetto, amore; era subentrata la noia, l’apatia, il menefreghismo. Ultimamente Andrea era trascurato anche nel vestire ed era spesso violento. Per fortuna non è mai arrivato a picchiarmi, ma con le parole mi faceva molto male. Forse… avrei preferito degli schiaffi! E Helenio ne soffriva tanto. Fui io a decidere di divorziare.”
    “Come la prese Bongio?”
    “Andrea non fece una piega. Era come se fosse morto dentro.”
    Morto dentro. Dunque se ciò che aveva raccontato Simone era avvenuto davvero, neanche Bongio si era salvato dalla maledizione.
    Dopo Cristina cercai di parlare con Lauro Rosini (Lennon) ma mi fu impossibile dato che si era trasferito in Brasile con la sua ragazza Paolina a lavorare per la ditta di prodotti per ufficio. Ottenni il suo numero di telefono, ricevendo in cambio solo cornette riagganciate ogni qualvolta gli dicevo chi ero.
    Mi vidi con Maso e Gallo al Sirius, il locale che frequentava abitualmente Simone, in una rara serata di libertà concessa ai due maritini da quei cerberi delle loro mogli. Rimasi turbata dalla loro reticenza. Negarono ogni mia parola (o velata accusa) riguardo droga, prostitute, vandalismi, e quando parlai apertamente di “una festa in campagna da te Gallo, avvenuta alcuni anni addietro” iniziarono a far scena muta, condendo la pantomima con sguardi di scherno nei miei confronti. Era chiaro come il sole che quei due nascondevano qualcosa, ma non avrebbero parlato neanche sotto tortura.
    Sperai di sapere qualcosa di più da Mastro Marasca, alias Antonio Zavatti. Faceva ancora il benzinaio e adesso era fidanzato con Eleuteria Magri detta la Blatta. Li andai a trovare a casa di Mastro Marasca. Parlammo per un pomeriggio intero; quando chiesi – per saggiare la loro onestà – se era avvenuta davvero quell’orgia in una camera d’albergo di Rimini, sia Eleuteria che Antonio non negarono, anzi, ricordarono divertiti quel triangolo.
    “Cara Arianna” disse Mastro Marasca, “sono cose che capitano, soprattutto quando si è giovani e in piena tempesta ormonale. Non c’è niente di strano o perverso.”
    “Certo, certo, ma… vi è mai successo di partecipare ad altre… chiamiamole pazzie, tipo in campagna da Gallo.”
    A quel punto Antonio tossicchiò e chiese, anzi ordinò a Eleuteria di andare in cucina a preparare due caffè.
    “Non so di cosa parli” rispose seccamente una volta rimasti soli. E da quel momento in poi capii di avergli fatto chiudere a chiave una porta nel suo inconscio e che non sarei più riuscita a far trapelare una sola notizia utile. Perse pure il sorriso per la restante ora in cui mi intrattenni.
    Dopo venti giorni di interrogatori, se così posso definirli, mi erano rimasti Capocchia e Gisto, al secolo Lorenzo Bonini e Nicola Popolo.
    Capocchia, dopo aver cambiato mille lavori, faceva l’aiuto cuoco in un ristorante di terz’ordine della periferia di Bologna. Dicono che abbia fatto qualche apparizione in alcuni film porno casalinghi, ma quando gliel’ho chiesto (avendo con lui una certa confidenza essendo anche amico mio), davanti a una Coca seduti a un tavolino di un bar cittadino, ha negato. Come ha negato ogni altro riferimento a “strane feste in case di campagna”.
    Un po’ depressa per la reticenza degli amici di Simone, trovai nelle parole di Gisto ciò che cercavo.
    “Io non ti dirò nulla… Non posso dire nulla… Ma se hai parlato con gli altri e non sei stupida, avrai senz’altro capito che qualcosa di terribile è successo.”

    Parlavo con Gisto sul camion della nettezza urbana, mentre caricava e svuotava i cassonetti dell’immondizia. Restai circa dieci minuti e prima di lasciarmi disse: “Guarda! Spazzatura, sudiciume, resti… Ci sono sempre resti, resti dappertutto.”

venerdì 9 gennaio 2015

Capitoli da XXIII a XXVII


Pochi sanno che da "La Grande Inculata" è stato tratto un film (vietato ai minori di 18 anni) con protagonista l'autore stesso e la partecipazione straordinaria di attori del calibro di Jimmy il Fenomeno e Salvo del Grande Fratello. Regia di Pupi Avariati. Uscito nelle sale della provincia di Bologna nel 2008 è stato ritirato poche settimane dopo per volere del Ministero dei Beni Culturali. 
Nella foto sopra una scena rubata sul set. Gli attori provano la scena clou.


XXIII. NON C’E’ PIU’ TEMPO 


Tralascio di inserire i capitoli XXI e XXII perché erano trenta pagine di…

sono solo un assassino

    Se siete cinefili non vi sfuggirà la reminiscenza: Jack Nicholson in “Shining”, il mio film preferito in assoluto.
    Temo che il germe della follia si stia facendo strada tra le mie cellule cerebrali, eppure il professor Moruzzi aveva spiegato che il decorso della malattia porta alla morte nella più totale lucidità. Almeno mi pare, non ne sono più così sicuro. Non sono più sicuro di niente. So solo che l’aurea mediocritas delle persone fuori da questa casa ha raggiunto il parossismo e una mia eventuale incursione nel mondo là fuori potrebbe essermi fatale.
    Devo sbrigarmi a finire questa storia, non c’è più tempo, l’Infame Orologio scandisce i suoi tic e i suoi tac imperterrito.
    Stasera sono stato invitato a Villa Skreta per cena. Non so se ci andrò, anche se non mi dispiacerebbe rivedere forse per l’ultima volta la casa dove sono cresciuto. Da più di un mese e mezzo non metto il naso fuori da queste mura e il rischio di perire al primo alito di Vuoto è quanto mai concreta.
    Non voglio insinuare che i miei cari siano gente traboccante Vuoto, ma il Vuoto può venirti soffiato in faccia come gas nervino da chiunque, anche dalle persone apparentemente meno sospettabili.
    Il professor Moruzzi mi raccontò un giorno di un caso emblematico. Un suo paziente svizzero affetto da sclerosi antropofobica progressiva venne invitato una sera a casa di un amico italiano, un docente universitario di lettere; costui era appassionato di astrologia e cosmogonia, di storia dell’arte, era esperto di numismatica e gran collezionista di libri antichi, dipingeva quadri eccelsi e suonava alla perfezione almeno tre o quattro strumenti musicali, parlava cinque lingue e aveva viaggiato il mondo in lungo e in largo. Durante la conversazione che ebbero quella sera questo professore ad un certo punto se ne uscì così:
    “Sono un leghista convinto. Credo che tutti questi extracomunitari puzzolenti debbano essere rimandati nei loro paesi a calci in culo. Ognuno a casa sua!”
    Il suo ospite esalò in quell’istante l’ultimo respiro.
    È quasi scontato che succederà così anche a me, ma devo procrastinare il più possibile quel momento, dato che come detto non c’è più tempo e non ho ancora vuotato tutto il sacco.


XXIV. A UN PASSO DALL’INFERNO

A quel punto le bottiglie di vino vuote raggruppate in un angolo erano una ventina abbondante. Dopo aver preso il caffè avevamo spostato la tavola in modo da rendere la sala da pranzo una piccola sala da ballo. Gallo mise la musica a palla e tutti, Robby compreso, ci scatenammo in pista.
    Dj Maso sceglieva la musica: Prodigy, Chemical Brothers, Duft Punk. Alle due ancora ci davamo dentro, poi pian piano, ci rimettemmo a sedere uno alla volta, esausti. Robby solo continuava instancabilmente a ballare.
    Mi guardai intorno e notai con un certo stupore che i volti dei miei amici erano come ipnotizzati dal giovane sconosciuto. Egli – anche se può sembrare un assurdo tentativo di giustificazione – emanava un’ancestrale aura maliarda, un qualcosa di magico e oscuro che mi terrorizzò.
    Quando Robby, quasi ridestatosi dalla trance del ballo si accorse di essere rimasto l’unico in pista, si avvicinò allo stereo e abbassando la musica disse:
    “Qualcuno mi può accompagnare ora? Sono pronto.”
    “Per andare dove?” chiese Mastro Marasca intronato dall’alcol e dalla musica.
    “Per andare in paese.”
    “E vacci da solo in paese” sbuffò Zio in un tono a metà tra sfida e noia.
    “Non scherzate signori, ora devo andare sul serio. Non posso rimanere qui, la Vita mi aspetta…”
    “Vattene un po’ affanculo sbarbatello” disse irritato Maso. “Chi sarebbe questa Vita? Tua mamma? Tua sorella? Perché non viene lei a prenderti?”
    “Quanto siete tristi!” disse ironicamente Robby. “Siete tutti dei cadaveri. Non ho mai visto tanti morti viventi tutti assieme!”
    E come morti viventi, quelli del film di Joe Dante, ci scagliammo improvvisamente su Robby.




STOOOOOOOOOP!
(n.b.: nel libro stampato nel riquadro sopra c'era l'immagine di un semaforo)


    Da questo punto in avanti si aprono le porte dell’inferno. Non vi obbligo a seguirmi, ma se lo farete, vi giuro che tutto ciò che racconterò ora è pura verità, anche se dovrete costringervi a credermi con tutte le forze tanto vi parrà assurdo il prosieguo.
    Prima di continuare vado a farmi un po’ di Vecchio Jack…


XXV. LA SPERANZA


Mamma ha aperto la porta bruscamente. Con lei c’era il professor Moruzzi. Fui sorpreso.
    “Simone! Simone! Senti cos’ha da dirti il professore!”
    “Calmati mamma, che succede? Professore?”
    “Forse c’è una speranza” disse Moruzzi.
    “Una speranza? Per cosa?”
    “Non ci facciamo troppe illusioni, ma un famoso ricercatore americano ha trovato un vaccino capace di guarire il Morbo di Giacomo Kellerman. Tutto è ancora in fase sperimentale e siccome ci sono talmente pochi casi di sclerosi antropofobica progressiva nel mondo, ho pensato di sottoporti alla sperimentazione del dottor Winkler.”
    “Dovrei fare la cavia?”
    “Stai tranquillo , anche se non è certa l’efficacia, è sicuro che non presenta effetti collaterali.”
    “In cosa consiste?”
    “Beh, il vaccino è una semplice pastiglia, si chiama Vicagon, della casa farmaceutica Testa, una sorta di potente antidepressivo.”
    “Tutto qui? Per curare il Morbo di Giacomo Kellerman basta una caramella antidepressiva?”
    “No, non è tutto.”
    “Ascolta, ascolta bene Simone” si intromise ansiosa mamma.
    “Gli studi del dottor Winkler” proseguì Moruzzi, “noto psichiatra e farmacologo, hanno stabilito che la combinazione di Vicagon con esperienze di vita nuove, possono far regredire la malattia sino alla guarigione.”
    “Che significa esperienze di vita nuove?”
    “Dopo aver assunto 100 milligrammi di Vicagon Testa, che ti renderà immune alle persone e al Vuoto per almeno un mese, dovrai lasciare il paese per un viaggio.”
    “Metaforico?”
   “No, reale!”
    “E dove dovrei andare?”
    “Non ti preoccupare, il Vicagon penserà per te. Farai esperienze nuove, viaggiando, vedendo posti nuovi e conoscendo nuova gente, gente che proprio grazie al Vicagon ti scatenerà una tale empatia che comincerai ad amare il mondo, lasciandoti alle spalle la sua mediocrità.”
    “E quando rientrerò dal viaggio che succederà?”
    “Beh, se gli studi di Winkler sono giusti, dovrebbe iniziare il processo di guarigione che ti porterà a tollerare il Vuoto nel giro di qualche settimana.”
    “Probabilità di successo?”
    “Diciamo un cinquanta percento, ma tentare a questo punto non può nuocere.”
    “Mi scusi se non ho capito: il viaggio! Mi spieghi meglio.”
    “Dopo avere ingerito il Vicagon, nel tuo cervello ci sarà uno sconvolgimento totale. Ti sentirai un altro… sarai un altro! Avrai pensieri nuovi, una nuova coscienza di te e del mondo. Ti basterà fare le valigie e portarti dietro qualche soldo. Diciamo che, per fare un esempio, è come se un mini pilota si sedesse nella cabina di pilotaggio del tuo cervello e ne prendesse il comando. Viaggerete. Magari il pilota sceglierà di andare in Brasile, o in Islanda, oppure in India o a pochi chilometri da qui. Dipende dalle tue inclinazioni inconsce, che il pilota esternerà. Mi capisci?”
    “Credo di sì, anche se sono un po’ perplesso. Qualcuno ha già provato la cura?”
    “Una decina di malati la sta provando in questo momento. Se decidi sarai uno di loro. Ti consiglio vivamente di provare, non c’è più molto tempo, il prossimo incontro con il Vuoto potrebbe essere l’ultimo.”
    Guardai mia madre; i suoi occhi disperati e supplichevoli mi fecero decidere immediatamente.
    “Quando posso prendere il Vicagon?”
    “Prepara le valigie e vieni oggi stesso in ospedale.”
    “Non posso, verrò domani. Devo finire di scrivere una storia.”


XXVI. BENVENUTI ALL’INFERNO 

Questa storia non doveva prendere questa piega ma la ventura ha deciso diversamente. E allora oggi, primo aprile 2004, dopo aver testé finito di festeggiare in tutta solitudine il mio 75° compleanno, mi appresto a raccontare come seviziammo e uccidemmo il giovane Robby.
    Il primo ad avventarsi sul ragazzo, dopo che questi ci ebbe impudentemente canzonato con le parole “morti viventi”, fu Mastro Marasca, il quale gli assestò un manrovescio sulla mandibola. Robby barcollò ma non cadde, allora sempre Mastro Marasca gli diede una violenta ginocchiata nello stomaco. Il Trucido lo prese per la maglietta e lo scaraventò a terra.
    “Ho un’idea!” proruppe Gallo. “Portatelo su in camera da letto.”
    In quella stanza, la vecchia stanza da letto della vecchia casa di campagna del vecchio Gallo, attraversammo tutti quanti la linea del non-ritorno.
    Spogliammo Robby completamente nudo. Mentre Zio e Losco lo tenevano fermo torcendogli le braccia e tirandogli i capelli, Maso lo costrinse a fargli un pompino.
    “Se provi a mordermi ti taglio le palle!” lo intimò. “E non provarti a sputare la sborra, capito?!”
    Gli venne in bocca. Non riesco ancora a credere a quello che facemmo; neppure sotto l’effetto della più potente droga del mondo credo che un branco di esseri umani apparentemente normali possa trasformarsi così di colpo in un armento di maniaci omicidi. Eppure…
    Capocchia tirò fuori il suo batacchio smisurato e gridò: “Apritegli il culetto che adesso gli mettiamo la supposta!”
    Penetrò il sedere del giovane e questi gridò dal dolore. Anche Turtlén, Zio, Lennon, Gallo, Mastro Marasca e Losco vollero inserire il loro gettone nel folle stupro.
    “Adesso basta!” intervenne Gisto, e mentre ancora Losco si trastullava con il martoriato deretano, diede una bottigliata in testa a Robby. La robusta bottiglia di vino si ruppe in mille pezzi e il ragazzo cadde a terra svenuto.
    Eravamo ancora tutti assatanati, e a parte Bongio che se ne stava in disparte, avevamo tutti brama di infierire su quel leggiadro corpo giovane.
    “Su, svegliatelo coglioni!” dissi.
    Vuotandogli in testa una bottiglia d’acqua Maso lo fece riprendere.
    “Perché non lo impicchiamo?” sbottò Gallo. “Ho sentito dire che quando si impicca uno gli si drizza il cazzo.”
    “Proviamo!” dissero Gisto e il Trucido in coro.
    “Vado a prendere la corda che c’è giù accanto al pozzo” dissi.
    Dieci minuti dopo issavamo il capestro alla trave centrale della sala dove avevamo consumato la cena. Robby, frastornato e terrorizzato al contempo, iniziò a piangere.
    “NO VI PREGO, LASCIATEMI STARE, NON UCCIDETEMI!”
    “Zitto fighetta!” ordinò con voce metallica Mastro Marasca.
    “PERCHÈ MI FATE QUESTO, IO NON VI HO FATTO NULLA!”
    “Nulla?” intervenni io. “Nulla? Tu hai distrutto le nostre vite!”
    Ancora oggi mi chiedo cosa volessi dire con quelle parole. A quel punto Robby aveva il cappio al collo e poggiava i piedi su una sedia di paglia.
    “NOOO, VI PREGO, NOOO!”
    “Chi vuole avere l’onore?” chiese Gallo.
    Tutti ci presentammo accanto alla sedia, a parte Bongio che disse di non sentirsela. Insieme demmo un calcio al precario sostegno facendolo volare a pezzi in un angolo.
    “Guardate! Allora è vero!” giubilò con un lampo di gioia sul volto Gallo.
    Robby penzolava e il suo membro diventava pian piano turgido, mentre la vita abbandonava il suo corpo. Esplose in una mitragliata di sperma e morì.
    Scoppiammo tutti a ridere, Bongio compreso, e le nostre risa si profusero man mano in un climax raggelante: sembravano risa provenienti dall’oltretomba. Poi il lugubre sghignazzo scemò sino ad esaurirsi, ma la nostre folle trance era ancora cupida e pulsante. Una fame inspiegabile ci assalì tutti quanti e quando Turtlén propose di assaggiare Robby, tutti lo avevamo già pensato.
    Gisto, Gallo, Turtlén e Mastro Marasca pensarono a fare a pezzi il cadavere, mentre Zio e Lennon riattizzavano il fuoco per preparare nuove braci.
    Ogni pezzo del ragazzo venne cotto. A me toccò un pezzo di coscia, uno squisito trancio di polmone, un ottimo testicolo e un saporitissimo quartino di gluteo. Nel giro di una mezz’ora non erano rimaste che le ossa, le quali sotterrammo accanto al pozzo. Bruciammo scarpe e indumenti e mentre vedevo ardere la maglia con Bart che esclamava “Ciucciati il calzino!” provai un brivido pensando che non eravamo stati noi a inculare Robby, ma lui noi.


XXVII. SOLO UN MOMENTO 

Solo un momento gente, non ho ancora finito. Ho fatto una pausa per farmi due dita di Vecchio Jack… è pur sempre il mio settantacinquesimo compleanno e domani… SI PARTE!
    Ma torniamo alla sera maledetta. Dopo aver fatto sparire tutti gli indizi ci ritrovammo intorno al tavolo della sala da pranzo. Il silenzio era calato su di noi come una cappa di smog soffocante. Mentre avvertivamo la follia dissolversi nessuno osava aprire bocca. Altro misterioso evento: ci assopimmo tutti quanti. Quando alle prime luci dell’alba ci svegliammo, non avemmo bisogno di parole per capire che nulla sarebbe mai  più stato come prima.



Scrivo queste ultime righe a mano perché ho già staccato il computer. Quello che dovevo far sapere l’ho scritto. È arrivato il grande momento. Mamma, papà, mia sorella Arianna e il suo ragazzo Lando, la Blatta, Gisto, la famiglia Bongiovanni, e Capocchia mi stanno aspettando giù in strada. Li saluterò , poi andrò all’ospedale da Moruzzi. Il Vicagon Testa mi guarirà? Quando tornerò dal “Viaggio” lo saprete.

Capitoli da XVI a XX

L'autore insieme a una lettrice de "La Grande Inculata".


XVI. MUTAMENTI


Ieri ho regalato l’unico televisore che avevo nell’appartamento a mia sorella che tra qualche mese si sposerà. L’ho fatto perché ormai non posso più guardarlo. “Il Grande Fratello” e l’invasione dei reality show, Biscardi e tutto il bla bla bla sportivo, Costanzo e gli amici di sua moglie, “Studio aperto” e quell’ibrido del suo direttore… Non c’è scampo!
    Il processo involutivo da uomo a larva è irreversibile. Comincio a perdere colpi, le uniche medicine che assumo sono dosi abbondanti di Vecchio Jack, ma sono palliativi inutili.
    Zio, la Blatta e Mastro Marasca sono venuti a trovarmi nel pomeriggio. Ho dovuto correre il “rischio crisi” perché avevo voglia di fare due chiacchiere e poi, ubriaco com’ero la capacità di percezione del Vuoto era ridotta ai minimi termini.
    Abbiamo parlato per un’oretta abbondante, durante la quale ho saputo che Zio e Mastro Marasca sono reduci da una settimana bianca trascorsa in Trentino, Mastro Marasca ha cambiato lavoro e ora fa il benzinaio, Zio ha fatto l’abbonamento a una palestra con Gisto.
    “Perché non vieni anche tu?” ha proposto Zio. “Magari ti farebbe bene!”
    “Non credo” ho risposto, “ci sono andato un paio di mesi molti anni fa e ti assicuro che non è proprio l’ambiente adatto a me la palestra.”
    Ad un certo punto la Blatta ha monopolizzato la chiacchierata con l’argomento Giamaica. A settimane infatti dovrebbe trasferirsi alcuni mesi sull’isola caraibica per lavoro (non ho capito bene se come barista, cameriera, sguattera o che); si è licenziata l’altro giorno dal suo lavoro di segretaria nell’azienda informatica albanese dove lavora anche Capocchia, troppo frustrata per tirare avanti. Credo che il suo cervello, da quando non è più insieme al buon Gisto, sia andato lentamente e inesorabilmente disgregandosi: da diverso tempo è alcolizzata e da troppo tempo inpenetrata, così ho il sospetto abbia deciso di andarsi a disintossicare con la ganja e a lubrificare con il big bamboo.
    “Mi ha fatto piacere vedervi” ho detto proponendo un brindisi con le Ceres che gli avevo offerto, “magari tra un po’ vi invito a un mio compleanno.”
    Ci siamo salutati e mi sono accostato alla finestra, osservando i miei chiamiamoli amici salire sulla macchina di Mastro Marasca. Ho pensato che oltre al regresso spirituale che hanno (abbiamo) avuto, anche l’aspetto fisico è drasticamente mutato in peggio rispetto a pochissimi anni fa. L’alcolismo ha reso la Blatta una parodia di se stessa, gonfia, pallida, ciondolante. Zio, benché vada in palestra è imbolsito, notevolmente abbruttito rispetto a quel bel ragazzo che era. Mentre Mastro Marasca ha accumulato strati di grasso nella pancia e nella pappagorgia tanto da sembrare la brutta copia di un Buddha.
    Sono andato in bagno a guardarmi allo specchio. Quello che ho visto non mi è piaciuto.



XVII (VIXI). ROBBY PER GLI AMICI


“Mi sono perso” disse entrando Robby. “Potete indicarmi la strada per il paese?”
    “Beh, è un po’ lontano da qui, saranno almeno quattro o cinque chilometri” gli riferì Bongio.
    “Sei in scooter?” chiese il Trucido.
    “No, sono a piedi.”
    “E da dove vieni a piedi, con questo freddo e in mezzo a questa campagna desolata?” feci io.
    “Passavo…” stava dicendo, quando Maso propose un brindisi “alla gnocca” e la risposta del giovane cadde nel fondo dei nostri bicchieri colmi.
    “Suvvia, siedi qui con noi” propose Gallo. “Bevi qualcosina poi qualcuno di noi ti porterà in paese.”
    “Va bene, siete molto gentili” rispose Robby per nulla intimidito da quella bolgia di ubriachi.
    Il livello etilico nel sangue era molto alto per tutti a quel punto. Maso era quello più fuori di tutti, colpa anche dei cannoni fumati prima di cena.
    “Come ti chiami bimbo?” gridò euforico Gisto.
    “Robby per gli amici.”
    “Vuoi uno spinello Robby?” propose Maso.
    “Mmm, veramente… non so se…”
    “Dai, cosa vuoi che ti facciano due tiri a una canna” insisté Gallo. “Fuma che è tutta salute!”
    Fumò Robby, e non si tirò neppure indietro durante le varie levate al cielo di bicchieri. Reggeva bene il ragazzino venuta dal nulla, così almeno ricordo di aver pensato osservandolo integrarsi così bene in mezzo a noi adulti.
    Era già mezzanotte passata quando Robby chiese se qualcuno poteva accompagnarlo.
    “Aspetta ancora un po’” dissi, “ci facciamo un altro paio di bicchieri poi ti porto via io.”
    “Ok, grazie.”



XVIII. COMPLEANNO AL SIRIUS 


L’ultimo compleanno che ho festeggiato al Sirius da Tony e Mamo è stato poco prima dell’ultimo Natale. Era il mio 63° o 64° compleanno. Tutti sapevano ormai della terribile malattia che mi affligge. Mamo mi aveva suggerito di fare un mega party al Ruvido, una discoteca per fighetti di Bologna. Ovviamente avevo declinato il consiglio dato che non sarei mai uscito vivo da un tale regno del Vuoto.
    Quella sera al tavolo del pub c’erano, oltre a Tony e Mamo, Gisto, Mastro Marasca, Zio, Bongio e sua moglie Cristina, Capocchia e la sua morosa Fedora, Lennon e la sua morosa Paolina, Maso e sua moglie Rachele, la Blatta e suo fratello Artemio, la Vanny con il suo ragazzo Bruno, Betty, Dolores e una loro amica che mi avevano presentato quella sera come Clementina.
    Maso aveva della cocaina rimastagli da una notte vandalica con Gallo e Idalgo; fu così gentile da offrirmene qualche riga, prontamente tirata nel bagno del locale.
    Stetti abbastanza bene per tutta la serata, a parte una leggera crisi iniziale dovuta a una frase pronunciata dalla Vanny: “Mia sorella lavora all’esilo e ci piace tanto.”
    Dopo mezz’ora ero talmente fatto che neanche mi accorsi quando sempre la Vanny disse: “Bruno ha comprato l’ultimo modello di tv al plasmon.” Per fortuna!
    Mamo e Tony offrirono molto gentilmente vino e birra a profusione (io scorsi nella loro cortesia anche una certa dose di compassione nei miei confronti). Visto che con quelle due fighe frigide di Dolores e Betty non si cavava un ragno dal buco, puntai tutte le mie fiches  su Clementina. Avevo notato che mi osservava con interesse e poco dopo notai anche che parlandole avevo scatenato la gelosia della Vanny (che per quanto fosse con il fidanzato-fantoccio era ancora innamorata della sua puttana) e della Blatta (che solo una settimana prima, in uno di quegli slanci di sincerità che si hanno solo quando si è ebbri di alcol, mi aveva confidato di essere pazza di me).
    Conversai piacevolmente con Clementina e non solo perché ero carico di benzina; scoprimmo di avere gli stessi gusti musicali e la stessa passione per la letteratura.
    “Qual è la tua canzone preferita?” mi chiese.
    “O surdato ‘nammurato” risposi.
    “Ma dai! Anch’io la adoro. E il tuo libro o scrittore preferito?”
    “Mah, potrei dirti con più facilità chi sono i libri e gli scrittori che non mi piacciono, ce n’è talmente tanti in giro! Mmm… ah sì, eccone uno che adoro: il Kamasutra!”
    “Wow!”
    Andai poi in brodo di giuggiole quando alla mia domanda sui suoi gusti sessuali mi rispose che non aveva tabù e amava provare tutto, era andata a letto un paio di volte anche con una sua amica.
    “Tu sei la donna dei miei sogni” le dissi solenne.
    La conversazione si spostò poi sul mio stato di salute.
    “Vedi” la informai, “il Morbo di Giacomo Kellerman – detto anche sclerosi antropofobica progressiva – non è una malattia contagiosa, è sostanzialmente una malattia psicosomatica cronica e se al mondo fossero tutti come te, non esisterebbe.”
    Stavo bluffando ma lei non se ne accorse. E forse neanch’io!
    “Ora sono praticamente invalido” proseguii, “e non posso più lavorare o stare troppo a contatto con le persone, ma non c’è nessuna controindicazione che mi impedisca di fare sesso…”
    La sera stessa mi offrii di riaccompagnarla a Bologna dove abitava con gli zii. Scopammo nel suo tugurio di camera. Quando la mattina mi svegliai nel letto di quella sconosciuta e misi a fuoco la situazione, il primo pensiero a passarmi per la mente fu: “Mio dio, che brutti scherzi giocano i mix di alcol e droga!”



XIX. SCHELETRI E BIGLIETTI

  
Ognuno ha i suoi scheletri nell’armadio, solo che c’è qualcuno che nell’armadio tiene dei fossili di dinosauro. Qualcuno come me per esempio.
    Quando ero innamorato di Alice e lei mi lasciò, dentro me calò la notte e in quel buio impenetrabile nacquero propositi tragicomici. Non so perché ne parlo, non essendoci vergogna più grande di quella che provo soltanto ripensandoci.
    Una volta, per trovare un modo di impietosire Alice (evidentemente in quel momento di oscurità totale pensavo fosse un buon metodo per farla tornare da me) finsi di scivolare sotto la doccia di casa e sbattere la testa per poi simulare la perdita della memoria. Quando mia mamma – dopo dieci minuti – capì che era una ridicola messinscena, il piano cadde nel cesso insieme alla mia dignità. (PRIMO FOSSILE).
    Un giorno riuscii a farmi ricevere da Alice in casa sua; era sola e siccome con la mia insistenza stavo peggiorando la già stracompromessa situazione, esasperato le misi le mani al collo. Credo che se avessi stretto per altri due secondi la mia storia sarebbe ben diversa e non l’avrei fatta franca come con l’omicidio di Robby. (SECONDO FOSSILE, TIRANNOSAURO).
    Beh, affanculo!, mi vergogno troppo per mostrarvi altri fossili. Prima ho detto di non sapere perché ne parlo, in realtà ho appena ricevuto una telefonata proprio da Alice (casualmente avevo il cellulare acceso): è per questo che l’armadio di fossili si è spalancato.
    “Ciao Simone, sono Alice.”
    “Alice chi?”
    “La tua Alice!”
    Sono rimasto qualche istante interdetto. Possibile che avesse detto “la tua Alice”? Forse me lo ero immaginato, ad ogni modo era lei, il grande amore del mio passato. Aveva saputo della mia situazione disperata di morituro, così adesso mi chiamava per sentire come stavo.
    “Mah, potrei stare meglio” le ho detto. “Come diceva Rutger Hauer prima di uccidere la sua vittima ne “I falchi della notte”: “Non ti devi preoccupare, vai in un mondo migliore”. Sto per fare le valigie… E tu come stai? Non parlo con te da almeno sette anni!”
    “Io sto bene. Dopodomani vado in vacanza nella nostra villa in Sardegna con Idalgo e i bimbi. Abbiamo rischiato di non partire perché a Idalgo hanno rubato quattromila euro la scorsa settimana mentre era fuori con Gallo e Maso. Quanti delinquenti ci sono in giro!”
    “Eh già! Bene, l’importante è che tu sia felice.”
    “Oh, felicissima!”
    Ho scritto un racconto qualche tempo fa in cui il protagonista conclude la storia dicendo: “Mi sento come un biglietto vincente della lotteria smarrito: valgo una fortuna ma nessuno mi intascherà mai.” Ecco, Alice mi ha fatto pensare a questo, e al fatto che c’è tanta gente che crede di aver vinto alla lotteria con il biglietto… dell’autobus!



XX. IL MIO MONDO  


Ho trascorso la giornata di ieri a farmi autoscatti e oggi mia sorella mi è andata a ritirare i cinque rullini utilizzati. Ho decine di fotografie sotto gli occhi e non riesco a farmene piacere neanche una; sto cercando la migliore da mettere sulla lapide insieme all’aforisma perfetto che non ho ancora creato.
    Lascio perdere e vado a segnare sul muro del bagno una frase tratta dal libro che ho appena terminato: “… le opere di valore nascono solo sotto il premere di una vita cattiva, colui che vive non lavora e, per essere perfetti creatori, bisogna essere morti.” Il libro è “Tonio Kroger” di Mann, volumetto che ho inserito nella mia speciale libreria.
    Quando osservo tutte quelle opere mi vien sempre da pensare ai miei primi libri pubblicati: “Cavalcando un fenicottero nano deforme” e “Dioniso misantropo”. Come ho potuto farmi plagiare da editori criminali e spendere vagonate di quattrini per pubblicare della roba ‘sì vergognosa?! Quella non era letteratura, quei libri erano schifezze partorite da una mente omologata, inesperta e pure ignorante. La musa ispiratrice di “Cavalcando un fenicottero nano deforme” è stata la sofferenza, il mecenate di “Dioniso misantropo” è stato il mio egocentrismo e sia nel primo che nel secondo libro non c’è traccia di fantasia o originalità o freschezza o quello che cazzo volete. Feuilleton banale e mellifluo “Cavalcando un fenicottero nano deforme”, “grido” pateticamente ribelle “Dioniso misantropo”, sono entrambi il simbolo di quello stesso male che ora aborro e che porterà sotto terra le mie povere membra: il Vuoto.
    Solo dopo aver scritto e pubblicato quei libercoli ho iniziato a scoprire realmente il gusto per la scrittura e le sue proprietà terapeutiche. Se “Cavalcando un fenicottero nano deforme” e “Dioniso misantropo” hanno qualcosa di buono è solo questo: mi hanno introdotto in un mondo dove mi sento perfettamente a mio agio. Se non mi fossi innamorato della letteratura, con ogni probabilità sarei oggi un serial killer e Robby non sarebbe stata che la prima di una lunga serie di vittime.
    Cazzo, cazzo, cazzo, tra poco abbandonerò questa vita e non ho visto pubblicata nemmeno una mia opera decente. È un pensiero estremamente fastidioso.
    Cazzo, cazzo, cazzo, non ho creato mai un cazzo. Sono stato solo capace di distruggere. Sono…
solo  un assassino, sono solo un assassino, sono solo un assassino, sono solo un assassino, sono solo un assassino, sono solo un assassino, sono solo un assassino, sono solo un assassino, sono solo un assassino, sono solo un assassino, sono solo un assassino, sono solo un assassino, sono solo un assassino, sono solo un assassino, sono solo un assassino, sono solo un assassino, sono solo un assassino, sono solo un assassino, sono solo un assassino,
sono solo un assassino, sono solo un assassino, sono solo un assassino,
sono solo un assassino,
sono solo un assassino,
sono solo un assassino,
sono solo un assassino,
sono solo un assassino,

sono solo un assassino…