sabato 10 gennaio 2015

PARTE SECONDA
di Arianna Skreta

I

E così Simone se ne andò. Sono passati cinque anni da quel giorno, quando dopo essere andato all’ospedale dal professor Gordiano Moruzzi e aver assunto il Vicagon, partì per quel viaggio che nelle speranze di tutti noi doveva guarirlo dal Morbo di Giacomo Kellerman. Ne sono invece passati quasi due da quando mi giunse questa lettera:

Cara Arianna,
ho saputo che sei diventata mamma di una splendida bimba che hai chiamato Giulia. Non sai quanto desidererei prenderla in braccio, coccolarla, baciarla. Non puoi immaginare quanto ho pregato (un ipotetico Dio della Giustizia Terrena) perché un giorno potessi diventare zio, giacché con il mio Male non era auspicabile diventare padre e far soffrire una creatura per avere un genitore allergico al mondo, un disadattato che non dava nessuna garanzia.
Purtroppo in tutto questo tempo non ho avuto occasione di scrivervi e come sai mi era stato assolutamente vietato avere contatti verbali con la mia vecchia esistenza per tutta la durata del “viaggio”.
Da quando sono partito ho visitato luoghi magnifici in continuazione: ho visto l’Europa, il Sud America, l’Africa, sono stato in Alaska, Patagonia, Nuova Zelanda, Australia. Sembrava quasi che l’effetto della medicina si intensificasse man mano viaggiavo. Più ANDAVO più stavo bene.
Ho incontrato persone fantastiche, persone il cui contatto non minacciava la mia vita come lì, a casa.
Quel vagabondare per il mondo mi ha portato a scoprire un luogo incredibile, sul quale purtroppo non posso dilungarmi, né tanto meno indicarti dove si trovi per motivi che capirai più avanti. Ti faccio però un approssimativo schizzo dell’isola se mai un giorno tu o Giulia doveste atterrarvi.

Nota: immagine presa dal libro.

La magnifica città in cui sono stato si chiama Eldorado, nel piccolo regno di Utopia. Qui la gente si rispetta, è tollerante, altruista. Qui non esistono eserciti e neppure leggi, perché in un paradiso dove il sentimento di amore e di giustizia è la colonna vertebrale degli abitanti, non c’è alcun bisogno di leggi, regole, se non quelle che ognuno si dà nel rispetto della libertà collettiva. Qui le persone sono intelligenti, acculturate, educate, generose, gentili, vivaci. In una tale società non esiste ipocrisia, invidia, odio. Non esiste la tv spazzatura che abbiamo noi. A dire la verità a Utopia non esiste proprio la tv. A Eldorado c’è un Re, Re Klawn III, un Re giusto che regna con il cuore e il cervello senza pensare ai suoi interessi. A Eldorado ognuno veste con un suo stile, stile che non segue nessuna moda. Pensa che nella lingua utopica non esiste la parola “moda”! Non esiste neppure la parola “eccentrico”, perché a modo suo ognuno è eccentrico; più si è diversi più si è uguali a Utopia, mica come da noi che tendiamo a uniformarci agli schemi, alle mode, ai cliché, ai diktat dei governanti, dei plutocrati, dei telepadroni. A Utopia non esistono religioni e l’unico Dio adorato è il Dio che ognuno ha dentro di sé. Le ideologie sono considerate sciocchezze obsolete per popoli medievali. Re Klawn III di Eldorado è uno dei sette Re delle sette città che compongono l’isola autarchica di Utopia, tutti filosofi di finissimo acume e sconfinato sapere. In questo regno l’arte, la letteratura, la musica, la scienza, hanno raggiunto livelli che nel mondo che conosciamo noi potrebbero essere pronosticabili solo per il 25° secolo.
A Eldorado conobbi amici meravigliosi. Uxor e Balzar erano fratelli; il primo era professore di filologia all’università di quell’aurea città in cui ho soggiornato, il secondo faceva lo scultore a Sun City, una delle sette sorelle. Grazie a loro capii che l’effetto del Vicagon era terminato da diverso tempo, già molto prima che giungessi a Utopia (il professor Moruzzi aveva detto che l’effetto del farmaco sarebbe durato circa un mese ma non saprei dire quando ha cessato di agire: stavo così bene lontano da casa che non me ne accorsi!). Mi sentivo guarito, ma volli averne la certezza partecipando alle sedute di un noto psichiatra, luminare nel suo campo. Gli raccontai del Morbo di Giacomo Kellerman e anche del trauma causato dall’assassinio di Robby. Il dottor Sensore – così si chiama – constatò la mia “fase temporanea di benessere”, diffidandomi dal tornare da dove ero venuto. Mi disse che sì, la sclerosi antropofobica progressiva poteva dirsi vinta, ma rimaneva comunque latente dentro di me e se avessi rincontrato il Vuoto che regna lì, nel nostro mondo, non sarei sopravvissuto. Ormai ero uno di Utopia e quando uno diventa Utopico, non può più tornare indietro.
Sensore cercò di analizzare anche il trauma Robby. Ti starai chiedendo cos’è il trauma Robby. Ebbene carissima Ari, nel mio appartamento troverai una cassaforte dietro la stampa di William Blake “Elohim crea Adamo”, nella mia camera da letto. Lì è contenuto, oltre ai miei diari, gli autoscatti e gli strati di polvere che come sai collezionavo, anche un dattiloscritto intitolato “La Grande Inculata”, dove confesso un atroce delitto commesso con i miei amici anni fa. Contiene rivelazioni scabrose. Metto tutto nelle tue mani. Anche la decisione di pubblicare quelle pagine o meno. Non importa cosa farai, io… sto morendo! Già, sconfitto il Morbo di Giacomo Kellerman e trovato il paradiso di Utopia, ho commesso l’ennesimo e più grave errore della mia infausta vita. Non ero d’accordo con il dottor Sensore sul fatto di non poter più tornare a casa. Mi sentivo talmente bene, ero talmente euforico che non potevo credere alle sue parole. Volevo dimostrare in primis a me stesso che avevo imparato a lottare contro il Mostro, essendo stato in un luogo che mi aveva colmato di un piacere spirituale talmente enorme da farmi sentire come un cavaliere invincibile che si appresta a tagliare la testa del Drago e affrancare così gli esseri umani dal suo giogo opprimente.
Discussi della cosa con Uxor e Balzar e anche loro si dissero scettici. Nessuno dopo essere stato in una delle città del Regno di Utopia era mai andato o tornato nel mondo. Temevano una forte reazione negativa, sia fisica che psicologica. Parlammo molto, trascorremmo interminabili serate a valutare i pro e i contro; siccome Uxor era curioso di studiare la lingua e la letteratura del nostro mondo per poi raccontarla ai suoi studenti, e Balzar voleva vedere dal vivo le sculture che non appartenevano al Regno, alla fine li convinsi a seguirmi nel viaggio. Tanto, come dissi loro, saremmo rimasti solamente un anno… Devi infatti sapere che a Utopia atterra un solo aereo all’anno (quello che avevo preso anch’io) con poche decine di “fortunati” a bordo e lo stesso aereo riparte in giornata con il solo equipaggio. Nessuno è talmente pazzo da lasciare Eldorado, o la capitale Montmorency, o Sun City, o Queensport, o New Bay, o Saint John, o Santa Florida. Noi fummo i primi a compiere il viaggio inverso dopo essere stati (io qualche mese, i due fratelli tutta la vita) a Utopia.
Partimmo dunque con quell’unico volo annuale. All’inizio della lettera ho evitato di darti coordinate per individuare sulle carte geografiche Utopia: il motivo è che non voglio che venga scoperta e quindi distrutta dall’uomo, ma in effetti è IMPOSSIBILE scoprirla se non dopo un lungo viaggio, innumerevoli esperienze e tantissima fortuna.
Da Montmorency, dove c’è l’aeroporto, atterrammo a Wellington in Nuova Zelanda; da lì giungemmo a Roma con un altro paio di scali. Non vi telefonai, volevo farvi una sorpresa dopo aver mostrato a Uxor e Balzar le bellezze della capitale. Ma dopo poche ore, in un albergo della periferia cittadina, Uxor cominciò ad accusare nausea e capogiri, seguito poco dopo da Balzar. Chiamai un taxi e li accompagnai all’ospedale. Intrappolati nel traffico ci mettemmo tre quarti d’ora ad arrivare. Venimmo accolti da infermieri sgarbati e attendemmo due ore prima che uno spazientito dottore li ricevesse nel suo ambulatorio del pronto soccorso. Dopo una visita sbrigativa e una flebo di vitamine li dimise prescrivendogli un paio di giorni di riposo.
Tornato in albergo anch’io ho cominciato ad avere nausea e capogiri, anche se in maniera meno accentuata. Con i due fratelli a letto privi di forze, ho tentato di telefonare in portineria perché mi chiamassero un’ambulanza ma le forze mi hanno abbandonato completamente prima di tirare su la cornetta. Sono svenuto dopo avere avuto una crisi epilettica tipica del Morbo di Giacomo Kellerman. Quando ho ripreso conoscenza, Uxor e Balzar giacevano morti nei loro letti. Avevo riacquistato un po’ di forza e resomi conto del mio imperdonabile errore (credere me stesso e i miei amici immuni) ho deciso di scriverti questa lettera. Ora sono qui, in questo hotel di Roma e sto per morire, questa volta davvero. Manca poco. Eppure dovevo ben saperlo che una volta vista Utopia non si può tornare indietro!
Cara Arianna, ti ripeto: FAI DE “LA GRANDE INCULATA” CIO’ CHE LA TUA COSCIENZA TI SUGGERISCE. Forse il mondo deve sapere o forse no.
Vi ho sempre amato con tutta l’anima, te, papà, mamma e ora Giulia, anche se non l’ho mai conosciuta e mai la conoscerò. Crescila con tutto l’amore possibile, proteggila dall’avidità e dalla cattiveria degli uomini, tienila lontana dall’ignoranza. Spero con tutto me stesso che diventi una ragazza intelligente, curiosa, ironica… Ma no, non lo spero, LO SO che lo diventerà.
Mi sento tanto debole. Un abbraccio infinito.

Vostro Simone

P.S: Con le ultime forze rimastemi ti scrivo che è appena entrato un agente segreto di Utopia. Gli lascio l’incarico di spedirti questa lettera. Sai, la nostra era una missione in incognito (i nostri passaporti erano falsi) e il compito dello 007 è quello di far sparire i nostri corpi senza lasciare traccia. Utopia deve rimanere un’utopia. Non dobbiamo permettere agli uomini del nostro mondo di colonizzarla con la loro stupidità.

Potete ben immaginare che la prima reazione che ebbi leggendo quella lettera fu di shock, incredulità. Inizialmente pensai a uno scherzo (quando era più giovane Simone era un vulcano di idee nel realizzare scherzi a amici e parenti), ma rileggendo altre cinque o sei volte quelle parole mi convinsi che l’avventura di mio fratello era stata davvero vissuta e purtroppo era giunta a termine. Il Morbo di Giacomo Kellerman alla fine aveva vinto.
    Quello che mi aspettava da quel momento in poi lo scoprirete leggendo del mio viaggio nei misteri del passato di Simone e dei suoi amici, un’indagine alla ricerca della verità su Robby e dell’esistenza di Utopia. Quando a casa di Simone lessi le pagine de “La Grande Inculata” mi ci vollero ore per riprendermi dalla violenza di quelle rivelazioni; non potevo credere a ciò che era accaduto nella casa di campagna di Gallo. Simone era uno scrittore fantasioso – almeno io lo reputavo tale – così pensai che sicuramente stava creando uno dei suoi racconti o romanzi migliori. Mio fratello era un’anima pura (uno dei motivi che secondo me lo avevano fatto ammalare), un uomo troppo buono e intelligente per compiere certe efferatezze, d’altro canto c’era una lettera che parlava chiaro e tutti i particolari che conoscevo della sua vita inseriti ne “La Grande Inculata” erano reali.
    Mi aveva lasciato un compito oneroso, decidere cioè se pubblicare o meno quell’incipit di romanzo (o storia vera di una tragedia). Dovevo quindi indagare sul vero o presunto omicidio prima di prendere una decisione.
    Decisi, per il momento, di non far parola con nessuno della lettera, de “La grande Inculata” e delle mie ricerche. La fine del viaggio di Simone coincise con l’inizio del mio. Avevo paura, non ero pronta per un’avventura simile, ma come diceva lui, quando la corrente ti trascina, lasciati andare. Da qualche parte arriverai.


II

Come ho già accennato, la prima cosa che feci dopo aver letto la lettera, fu  recarmi immediatamente all’appartamento di Simone. Ricordo che mi trovavo a casa con Giulia e le stavo dando la pappa quando suonò il citofono e il postino mi consegnò la raccomandata. Finii di dare da mangiare alla bimba, poi aprii la busta. Riletto più volte il suo contenuto e scemato lo sgomento telefonai a Villa Skreta per chiedere a mamma se poteva tenere Giulia per un po’. Lando era a lavorare così portai il nostro tesoro ai nonni e mi precipitai a casa di Simone.
    Nella cassaforte dietro la stampa di Blake trovai quello che mi aveva indicato: gli autoscatti, i diari, gli strati di polvere e “La Grande Inculata”. Diedi un’occhiata agli autoscatti, chiedendomi se negli ultimi tempi Simone fosse cambiato molto o se il fatto di aver trovato una dimensione su misura ne avesse accentuato quell’espressione intensa e sognante che lo caratterizzava. Cominciai quindi a leggere “La Grande Inculata” con attenzione, dopodiché, giunta al termine, mi sdraiai sul letto. Tutti gli aforismi che mio fratello aveva segnato sui muri sembrarono vorticare velocissimi e per poco non persi i sensi. Poi chiusi gli occhi e quando li riaprii tutto parve essere tornato alla normalità.
    Trascorsi le due ore successive a vagare per l’appartamento in cerca di indizi. Mi sentivo come trasportata in un film di detective. Su un taccuino che trovai in un cassetto annotai alcuni aforismi che il buon Mone aveva scritto in rosso (mentre la stragrande maggioranza erano scritti in nero) sulle pareti della stanza. Tra questi:

“Scrivere non è una professione: è una vocazione all’infelicità. Penso che un artista non possa mai essere felice.” (Georges Simenon)

“Nessuno può sconfinare in un altro per il semplice motivo che nessuno può accedere a se stesso.” (Paul Auster)

“La gente di solito si rifugia nel futuro per sfuggire alle proprie sofferenze.” (Milan Kundera)

“Quando si tende a fare le cose che fanno tutti gli altri si diventa tutti gli altri” (Charles Bukowski)

“La fantasia è madre della soddisfazione, dell’umorismo, dell’arte di vivere”(Hermann Hesse)

“Se noi riconosciamo che errare è dell’uomo, non è crudeltà sovrumana la giustizia?” (Luigi Pirandello)

“Il giorno in cui noi intellettuali o artisti stimeremo qualcuno vorrà dire che abbiamo l’ego fuso e quel giorno smetteremo di essere intellettuali o artisti” (Manuel Vazquez Montalban)

“È più facile morire di niente che di dolore. Al dolore ci si può ribellare, al niente no.” (Susanna Tamaro)

“Quando compi trent’anni diventi tu il peggior nemico di te stesso.” (Chuck Palahniuk)

“Non c’è nulla di più tragico, per l’individuo come per i popoli, dell’abitudine alla mediocrità.” (Francesco Alberoni)

“Riempiti gli occhi di meraviglie, vivi come se dovessi cadere morto fra dieci secondi!” (Ray Bradbury)

“Non credo che si debba amare il proprio lavoro. Se lo si amasse, non sarebbe più un lavoro.” (John Updike)

“Quando non si riesce ad avere quel che si merita in un mondo, lo si cerca in un altro” (Voltaire)

“Non è difficile essere solo se sei povero e fallito. Un artista è sempre solo, se è un artista. No, un artista ha bisogno di solitudine.” (Henry Miller)

“Sono sempre stato del parere che il lavoro duro è semplicemente il rifugio delle persone che non hanno assolutamente niente da fare.” (Oscar Wilde)

“La maggior parte degli uomini muoiono prima di essere nati compiutamente. Essere creativi significa portare a compimento la propria nascita prima di morire.” (Erich Fromm)

“Ricco è l’uomo che è molto, non l’uomo che ha molto!” (Karl Marx)

“Chi va in giro lecca e chi sta a casa la lingua je se secca.” (Pier Paolo Pasolini)

    Mi fermo qui, anche perché gli aforismi segnati in rosso saranno stati centinaia. Sul block notes ne trascrissi un’altra ventina. In ognuno c’era qualcosa di Simone. In fondo, se li aveva evidenziati dovevano averlo colpito, lasciando così intravedere la sua visione della vita. Tra tutti, ne trovai uno sottolineato, oltre che scritto in rosso:

“Ci sono molti morti nella mia vita, ma più morto di tutti è il ragazzo che io fui.” (Georges Bernanos)                     

    Lo sottolineai anch’io, con l’intima convinzione che potesse essermi molto utile in futuro. Più tardi, dopo aver frugato nei cassetti e negli armadi passai a controllare la libreria. Ci saranno stati almeno duemila volumi e mi dissi che era proprio un personaggio stravagante uno che collezionava solo i libri che non aveva apprezzato.
    Ad un tratto squillò il cellulare: era mamma, preoccupata per la mia assenza prolungata. Le avevo detto che andavo a fare un po’ di spesa e Giulia, che all’epoca aveva otto mesi, cominciava ad essere nervosetta. Rimisi tutto in ordine nella cassaforte e mi ripromisi di tornare il giorno dopo.
    La mattina seguente – un venerdì – dato che i nonni erano impegnati e Lando era come sempre al lavoro nel suo ufficio di geometra comunale, tornai all’appartamento con Giulia. Una volta addormentata ripresi il mio lavoro investigativo. Aprii la cassaforte con la combinazione che Simone  mi aveva lasciato sotto il poscritto della lettera e cominciai a sfogliare i diari. Quello che traspariva da quelle pagine era senz’altro lo spirito di mio fratello, uomo sensibile, sincero, profondo, fantasioso, sognatore, introspettivo, sarcastico, autoironico, intelligente, ma anche insicuro, pessimista, incostante, accidioso, introverso, velenoso con chi gli faceva dei torti, perfezionista, asociale per indole e per forza a causa del Morbo (“vado molto fiero della mia asocialità innata” ha scritto su un diario). Si sentiva un artista ma si vergognava ad affermarlo perché diceva che la gente non avrebbe capito il suo concetto di artista, cioè un uomo con la tempesta dentro che rischia quotidianamente di morire se quella tempesta  non trova una valvola di sfogo per uscire. Nelle pagine dei diari questa visione era lampante, come il pensiero ricorrente dell’ingiustizia della vita, che premia spesso persone che non hanno nessun valore ma si sanno vendere e schiaccia chi ha talento, cervello e cuore ma non sa come smerciarli.
    Simone scriveva e sobillava per VIVERE, ma se nessuno ti capisce o peggio, ti ascolta, rischi comunque di implodere. Chissà, anche questa potrebbe essere stata una delle cause della comparsa del Morbo di Giacomo Kellerman, oltre alla fragilità del suo carattere.
    Per giorni interi analizzai mio fratello dai diari. A volte portavo con me Giulia, altre volte ero sola; non dicevo a nessuno dove andavo.
    Com’è ovvio, per la natura stessa di ogni diario segreto, trovai al suo interno cose che non avrei mai immaginato Simone pensasse o facesse. Per esempio rimasi molto male quando lessi che aveva fatto uso seppur saltuario di cocaina, o avesse fantasie erotiche su quella “poco di buono” della mia ex collega alle poste Matilde, o fosse stato a letto con la Blatta insieme a Mastro Marasca (fatto inserito anche ne “La Grande Inculata”), o che pensasse che persone a lui care non lo avevano mai incentivato, anzi, gli avevano messo sempre il bastone tra le ruote ogni qualvolta voleva prendere una decisione. Dopotutto cos’è un diario se non la persona senza maschere? Niente come un diario ti mostra lo spirito che abita in un individuo.
    Una volta letti tutti i libri che componevano la sua diarioteca, mi ero costruita la base per partire alla scoperta di quello che chiamerò d’ora in poi il Grande Mistero.



III

Per una settimana dunque, dal momento in cui ricevetti la lettera, indagai sulla vita di Simone vagliando gli indizi che trovai nel suo appartamento. Lessi e rilessi “La Grande Inculata”, esaminai approfonditamente i diari, lessi i suoi racconti e valutai da una nuova prospettiva i suoi libri “Cavalcando un fenicottero nano deforme” e “Dioniso misantropo”, cercai riscontri negli aforismi, nei brutti libri della biblioteca, osservai gli strati di polvere, implorai una rivelazione agli autoscatti, ma la misteriosa trama di questa vicenda surreale non si dipanava. Trovai in un cassetto della scrivania un elenco di libri belli che aveva letto e li comprai. Nei giorni a seguire ne lessi il più possibile, partendo da “Opinioni di un clown” di Boll, fino a “Gabriella garofano e cannella” di Amado, senza però trovare nessi con l’isola di Utopia o i fatti della casa di campagna. Cercai riscontri nella vita degli autori letti e negli autori degli aforismi ma incontrai solo nebbia. La mossa successiva fu parlare con i ragazzi che avevano partecipato alla fatidica cena.
   Da qualche mese, prima di rimanere incinta di Giulia, mi ero licenziata dal posto di impiegata postale e mi ero dedicata al mestiere di casalinga, per cui quando i nonni tenevano la bimba, avevo molto tempo a disposizione, tempo che in quel momento impiegai contattando gli amici di mio fratello.
    Il primo che incontrai, recandomi a casa sua dopo aver fissato un appuntamento per telefono, fu Ezio Buzzati detto Losco. A quanto ricordo e da quel che scriveva Simone sui diari, Losco era uno degli amici con i quali mio fratello si intratteneva più volentieri a parlare, soprattutto di argomenti seri o culturali. Rimase paralizzato dal bacino in giù dopo un incidente, quando il presunto (per ora) delitto era già stato perpetrato. Si dice fosse fatto di ecstasy e probabilmente anche dopo la disgrazia capitatagli non aveva smesso di abusare di droghe. Lo trovai in stato confusionale. Era stato mio compagno di classe dalle elementari alle medie e vederlo in quelle condizioni mi fece una pena indescrivibile. Non mi fu di grande aiuto; biascicava parole incomprensibili inframmezzate dall’interiezione “vattelappesca”. Quando tirai fuori il nome Robby il suo volto venne colto da un bagliore di spavento, l’unico cenno espressivo che quei lineamenti devastati da cicatrici riuscirono a esternare. Dopo mezz’ora di inutili domande e astruse risposte, salutai Ezio con una tristezza infinita nel cuore.
    Il Trucido, soprannome di Teodoro Navarro, era morto suicida quando Simone era ancora con noi. Contattai suo fratello Pasquale, che molto gentilmente acconsentì di parlarmi del Teodoro degli ultimi tempi prima dell’insano gesto.
    “Era molto cambiato. Non rideva più, parlava poco. Non ci ha mai detto se era successo qualcosa nella sua vita privata da indurlo in quello stato di depressione; dopotutto la depressione non ha certo bisogno di “motivi apparenti” per fare la sua comparsa, può colpire anche persone la cui vita sembra felice. Teo era felice, lo posso dire senz’ombra di dubbio: una bella fidanzata, un lavoro che amava, una famiglia unita che lo stimava, amici… Di punto in bianco il buio. Fu una mazzata per noi, per i miei vecchi in particolare. Lasciò un biglietto…”
    A quel punto Pasquale sparì in qualche vano dell’appartamento che divideva con la moglie e i due figli piccoli e si ripresentò con il biglietto. Me lo porse.


Nulla potrà tornare come prima.
Non posso più vivere così.
                                                                                         Addio, Teo

    “E di Simone? Non avete più saputo nulla da allora, da quando partì per curarsi?” mi chiese mentre ancora meditavo su quelle parole.
    “No, non abbiamo più avuto sue notizie. Ma sono certa che tornerà.”
    Lasciai Pasquale dopo un’altra oretta ringraziandolo per il tempo concessomi. A parte il biglietto e la repentina metamorfosi di Teodoro non ottenni molte informazioni interessanti.
    Dalla partenza di Simone, avvenuta tre anni prima – se partiamo dal periodo in cui mi misi a far chiarezza sul Grande Mistero – altri tre suoi amici erano morti: Valerio Resca (Turtlén), Michele Fermi (Zio) e Andrea Bongiovanni (Bongio).
    Turtlén era alcolizzato e morì di cirrosi neanche un anno dopo l’inizio del viaggio di Simone. Tre settimane dopo il funerale di Valerio, Zio venne investito da un camper mentre era fermo sulla corsia d’emergenza dell’ autostrada: era sceso per controllare un pneumatico che credeva sgonfio ed era stato falciato. Bongio lo ha portato via un infarto uno o due mesi prima l’inizio delle mie indagini, a soli trent’anni, mentre era impegnato con le pratiche di divorzio con Cristina.
    Dai parenti di Zio e Turtlén ricevetti un trattamento poco cordiale. Parevano infastiditi da quella mia intrusione nel privato delle loro tragedie, però riuscii ugualmente a sapere dalla mamma di Valerio che l’inizio della sua passione per l’alcol coincideva all’incirca con il suicidio del Trucido e la tossicodipendenza di Losco.
    Mi interessai in modo particolare al caso di Bongio, proprio colui che Simone aveva per così dire risparmiato nel suo racconto-confessione, descrivendolo come l’unico non pienamente colpevole nell’omicidio di Robby.
    Mi vidi con Cristina ai giardinetti pubblici di Castello d’Argile. Aveva con sé Helenio che stava giocando con due amichetti.
    “Stavamo per divorziare Arianna, il nostro amore era finito da tempo nonostante indossassimo una maschera quando uscivamo, per fare sembrare il nostro rapporto ancora idilliaco. Da qualche anno poi, Andrea era scorbutico, arrogante, mi apostrofava con parole volgari e si innervosiva per un nonnulla.”
    “Sai dirmi esattamente, se ricordi, quando cominciò ad essere così?” chiesi.
    “Non saprei, quattro, cinque, sei anni fa. Posso dirti che dalla morte di Teodoro Navarro in poi è iniziato un inarrestabile logorio del nostro rapporto. Non c’era più rispetto, amore; era subentrata la noia, l’apatia, il menefreghismo. Ultimamente Andrea era trascurato anche nel vestire ed era spesso violento. Per fortuna non è mai arrivato a picchiarmi, ma con le parole mi faceva molto male. Forse… avrei preferito degli schiaffi! E Helenio ne soffriva tanto. Fui io a decidere di divorziare.”
    “Come la prese Bongio?”
    “Andrea non fece una piega. Era come se fosse morto dentro.”
    Morto dentro. Dunque se ciò che aveva raccontato Simone era avvenuto davvero, neanche Bongio si era salvato dalla maledizione.
    Dopo Cristina cercai di parlare con Lauro Rosini (Lennon) ma mi fu impossibile dato che si era trasferito in Brasile con la sua ragazza Paolina a lavorare per la ditta di prodotti per ufficio. Ottenni il suo numero di telefono, ricevendo in cambio solo cornette riagganciate ogni qualvolta gli dicevo chi ero.
    Mi vidi con Maso e Gallo al Sirius, il locale che frequentava abitualmente Simone, in una rara serata di libertà concessa ai due maritini da quei cerberi delle loro mogli. Rimasi turbata dalla loro reticenza. Negarono ogni mia parola (o velata accusa) riguardo droga, prostitute, vandalismi, e quando parlai apertamente di “una festa in campagna da te Gallo, avvenuta alcuni anni addietro” iniziarono a far scena muta, condendo la pantomima con sguardi di scherno nei miei confronti. Era chiaro come il sole che quei due nascondevano qualcosa, ma non avrebbero parlato neanche sotto tortura.
    Sperai di sapere qualcosa di più da Mastro Marasca, alias Antonio Zavatti. Faceva ancora il benzinaio e adesso era fidanzato con Eleuteria Magri detta la Blatta. Li andai a trovare a casa di Mastro Marasca. Parlammo per un pomeriggio intero; quando chiesi – per saggiare la loro onestà – se era avvenuta davvero quell’orgia in una camera d’albergo di Rimini, sia Eleuteria che Antonio non negarono, anzi, ricordarono divertiti quel triangolo.
    “Cara Arianna” disse Mastro Marasca, “sono cose che capitano, soprattutto quando si è giovani e in piena tempesta ormonale. Non c’è niente di strano o perverso.”
    “Certo, certo, ma… vi è mai successo di partecipare ad altre… chiamiamole pazzie, tipo in campagna da Gallo.”
    A quel punto Antonio tossicchiò e chiese, anzi ordinò a Eleuteria di andare in cucina a preparare due caffè.
    “Non so di cosa parli” rispose seccamente una volta rimasti soli. E da quel momento in poi capii di avergli fatto chiudere a chiave una porta nel suo inconscio e che non sarei più riuscita a far trapelare una sola notizia utile. Perse pure il sorriso per la restante ora in cui mi intrattenni.
    Dopo venti giorni di interrogatori, se così posso definirli, mi erano rimasti Capocchia e Gisto, al secolo Lorenzo Bonini e Nicola Popolo.
    Capocchia, dopo aver cambiato mille lavori, faceva l’aiuto cuoco in un ristorante di terz’ordine della periferia di Bologna. Dicono che abbia fatto qualche apparizione in alcuni film porno casalinghi, ma quando gliel’ho chiesto (avendo con lui una certa confidenza essendo anche amico mio), davanti a una Coca seduti a un tavolino di un bar cittadino, ha negato. Come ha negato ogni altro riferimento a “strane feste in case di campagna”.
    Un po’ depressa per la reticenza degli amici di Simone, trovai nelle parole di Gisto ciò che cercavo.
    “Io non ti dirò nulla… Non posso dire nulla… Ma se hai parlato con gli altri e non sei stupida, avrai senz’altro capito che qualcosa di terribile è successo.”

    Parlavo con Gisto sul camion della nettezza urbana, mentre caricava e svuotava i cassonetti dell’immondizia. Restai circa dieci minuti e prima di lasciarmi disse: “Guarda! Spazzatura, sudiciume, resti… Ci sono sempre resti, resti dappertutto.”

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