PARTE SECONDA
di Arianna Skreta
I
E così Simone se ne andò. Sono passati cinque anni da quel
giorno, quando dopo essere andato all’ospedale dal professor Gordiano Moruzzi e
aver assunto il Vicagon, partì per quel viaggio che nelle speranze di tutti noi
doveva guarirlo dal Morbo di Giacomo Kellerman. Ne sono invece passati quasi
due da quando mi giunse questa lettera:
Cara Arianna,
ho saputo che sei diventata mamma di una splendida
bimba che hai chiamato Giulia. Non sai quanto desidererei prenderla in braccio,
coccolarla, baciarla. Non puoi immaginare quanto ho pregato (un ipotetico Dio
della Giustizia Terrena) perché un giorno potessi diventare zio, giacché con il
mio Male non era auspicabile diventare padre e far soffrire una creatura per
avere un genitore allergico al mondo, un disadattato che non dava nessuna
garanzia.
Purtroppo in tutto questo tempo non ho avuto occasione
di scrivervi e come sai mi era stato assolutamente vietato avere contatti
verbali con la mia vecchia esistenza per tutta la durata del “viaggio”.
Da quando sono partito ho visitato luoghi magnifici in
continuazione: ho visto l’Europa, il Sud America, l’Africa, sono stato in
Alaska, Patagonia, Nuova Zelanda, Australia. Sembrava quasi che l’effetto della
medicina si intensificasse man mano viaggiavo. Più ANDAVO più stavo bene.
Ho incontrato persone fantastiche, persone il cui
contatto non minacciava la mia vita come lì, a casa.
Quel vagabondare per il mondo mi ha portato a scoprire
un luogo incredibile, sul quale purtroppo non posso dilungarmi, né tanto meno
indicarti dove si trovi per motivi che capirai più avanti. Ti faccio però un
approssimativo schizzo dell’isola se mai un giorno tu o Giulia doveste
atterrarvi.
Nota: immagine presa dal libro.
La magnifica città in cui sono stato si chiama Eldorado, nel piccolo
regno di Utopia. Qui la gente si rispetta, è tollerante, altruista. Qui non
esistono eserciti e neppure leggi, perché in un paradiso dove il sentimento di
amore e di giustizia è la colonna vertebrale degli abitanti, non c’è alcun
bisogno di leggi, regole, se non quelle che ognuno si dà nel rispetto della
libertà collettiva. Qui le persone sono intelligenti, acculturate, educate,
generose, gentili, vivaci. In una tale società non esiste ipocrisia, invidia,
odio. Non esiste la tv spazzatura che abbiamo noi. A dire la verità a Utopia
non esiste proprio la tv. A Eldorado c’è un Re, Re Klawn III, un Re giusto che
regna con il cuore e il cervello senza pensare ai suoi interessi. A Eldorado
ognuno veste con un suo stile, stile che non segue nessuna moda. Pensa che
nella lingua utopica non esiste la parola “moda”! Non esiste neppure la parola
“eccentrico”, perché a modo suo ognuno è eccentrico; più si è diversi più si è
uguali a Utopia, mica come da noi che tendiamo a uniformarci agli schemi, alle
mode, ai cliché, ai diktat dei governanti, dei plutocrati, dei telepadroni. A
Utopia non esistono religioni e l’unico Dio adorato è il Dio che ognuno ha
dentro di sé. Le ideologie sono considerate sciocchezze obsolete per popoli medievali.
Re Klawn III di Eldorado è uno dei sette Re delle sette città che compongono
l’isola autarchica di Utopia, tutti filosofi di finissimo acume e sconfinato
sapere. In questo regno l’arte, la letteratura, la musica, la scienza, hanno
raggiunto livelli che nel mondo che conosciamo noi potrebbero essere
pronosticabili solo per il 25° secolo.
A Eldorado conobbi amici meravigliosi. Uxor e Balzar
erano fratelli; il primo era professore di filologia all’università di
quell’aurea città in cui ho soggiornato, il secondo faceva lo scultore a Sun
City, una delle sette sorelle. Grazie a loro capii che l’effetto del Vicagon
era terminato da diverso tempo, già molto prima che giungessi a Utopia (il
professor Moruzzi aveva detto che l’effetto del farmaco sarebbe durato circa un
mese ma non saprei dire quando ha cessato di agire: stavo così bene lontano da
casa che non me ne accorsi!). Mi sentivo guarito, ma volli averne la certezza
partecipando alle sedute di un noto psichiatra, luminare nel suo campo. Gli
raccontai del Morbo di Giacomo Kellerman e anche del trauma causato
dall’assassinio di Robby. Il dottor Sensore – così si chiama – constatò la mia
“fase temporanea di benessere”, diffidandomi dal tornare da dove ero venuto. Mi
disse che sì, la sclerosi antropofobica progressiva poteva dirsi vinta, ma
rimaneva comunque latente dentro di me e se avessi rincontrato il Vuoto che
regna lì, nel nostro mondo, non sarei sopravvissuto. Ormai ero uno di Utopia e
quando uno diventa Utopico, non può più tornare indietro.
Sensore cercò di analizzare anche il trauma Robby. Ti
starai chiedendo cos’è il trauma Robby. Ebbene carissima Ari, nel mio
appartamento troverai una cassaforte dietro la stampa di William Blake “Elohim
crea Adamo”, nella mia camera da letto. Lì è contenuto, oltre ai miei diari,
gli autoscatti e gli strati di polvere che come sai collezionavo, anche un
dattiloscritto intitolato “La Grande Inculata ”, dove confesso un atroce delitto
commesso con i miei amici anni fa. Contiene rivelazioni scabrose. Metto
tutto nelle tue mani. Anche la decisione di pubblicare quelle pagine o meno.
Non importa cosa farai, io… sto morendo! Già, sconfitto il Morbo di Giacomo
Kellerman e trovato il paradiso di Utopia, ho commesso l’ennesimo e più grave
errore della mia infausta vita. Non ero d’accordo con il dottor Sensore sul
fatto di non poter più tornare a casa. Mi sentivo talmente bene, ero talmente
euforico che non potevo credere alle sue parole. Volevo dimostrare in primis a
me stesso che avevo imparato a lottare contro il Mostro, essendo stato in un
luogo che mi aveva colmato di un piacere spirituale talmente enorme da farmi
sentire come un cavaliere invincibile che si appresta a tagliare la testa del
Drago e affrancare così gli esseri umani dal suo giogo opprimente.
Discussi della cosa con Uxor e Balzar e anche loro si
dissero scettici. Nessuno dopo essere stato in una delle città del Regno di
Utopia era mai andato o tornato nel mondo. Temevano una forte reazione
negativa, sia fisica che psicologica. Parlammo molto, trascorremmo interminabili
serate a valutare i pro e i contro; siccome Uxor era curioso di studiare la
lingua e la letteratura del nostro mondo per poi raccontarla ai suoi studenti,
e Balzar voleva vedere dal vivo le sculture che non appartenevano al Regno,
alla fine li convinsi a seguirmi nel viaggio. Tanto, come dissi loro, saremmo
rimasti solamente un anno… Devi infatti sapere che a Utopia atterra un solo
aereo all’anno (quello che avevo preso anch’io) con poche decine di “fortunati”
a bordo e lo stesso aereo riparte in giornata con il solo equipaggio. Nessuno è
talmente pazzo da lasciare Eldorado, o la capitale Montmorency, o Sun City, o
Queensport, o New Bay, o Saint John, o Santa Florida. Noi fummo i primi a
compiere il viaggio inverso dopo essere stati (io qualche mese, i due fratelli
tutta la vita) a Utopia.
Partimmo dunque con quell’unico volo annuale.
All’inizio della lettera ho evitato di darti coordinate per individuare sulle
carte geografiche Utopia: il motivo è che non voglio che venga scoperta e
quindi distrutta dall’uomo, ma in effetti è IMPOSSIBILE scoprirla se non dopo
un lungo viaggio, innumerevoli esperienze e tantissima fortuna.
Da Montmorency, dove c’è l’aeroporto, atterrammo a
Wellington in Nuova Zelanda; da lì giungemmo a Roma con un altro paio di scali.
Non vi telefonai, volevo farvi una sorpresa dopo aver mostrato a Uxor e Balzar
le bellezze della capitale. Ma dopo poche ore, in un albergo della periferia
cittadina, Uxor cominciò ad accusare nausea e capogiri, seguito poco dopo da
Balzar. Chiamai un taxi e li accompagnai all’ospedale. Intrappolati nel
traffico ci mettemmo tre quarti d’ora ad arrivare. Venimmo accolti da
infermieri sgarbati e attendemmo due ore prima che uno spazientito dottore li
ricevesse nel suo ambulatorio del pronto soccorso. Dopo una visita sbrigativa e
una flebo di vitamine li dimise prescrivendogli un paio di giorni di riposo.
Tornato in albergo anch’io ho cominciato ad avere
nausea e capogiri, anche se in maniera meno accentuata. Con i due fratelli a
letto privi di forze, ho tentato di telefonare in portineria perché mi
chiamassero un’ambulanza ma le forze mi hanno abbandonato completamente prima
di tirare su la cornetta. Sono svenuto dopo avere avuto una crisi epilettica
tipica del Morbo di Giacomo Kellerman. Quando ho ripreso conoscenza, Uxor e
Balzar giacevano morti nei loro letti. Avevo riacquistato un po’ di forza e
resomi conto del mio imperdonabile errore (credere me stesso e i miei amici
immuni) ho deciso di scriverti questa lettera. Ora sono qui, in questo hotel di
Roma e sto per morire, questa volta davvero. Manca poco. Eppure dovevo ben
saperlo che una volta vista Utopia non si può tornare indietro!
Cara Arianna, ti ripeto: FAI DE “LA GRANDE INCULATA ”
CIO’ CHE LA TUA
COSCIENZA TI SUGGERISCE. Forse il mondo deve sapere o forse
no.
Vi ho sempre amato con tutta l’anima, te, papà, mamma e
ora Giulia, anche se non l’ho mai conosciuta e mai la conoscerò. Crescila con
tutto l’amore possibile, proteggila dall’avidità e dalla cattiveria degli
uomini, tienila lontana dall’ignoranza. Spero con tutto me stesso che diventi
una ragazza intelligente, curiosa, ironica… Ma no, non lo spero, LO SO che lo
diventerà.
Mi sento tanto debole. Un abbraccio infinito.
Vostro Simone
P.S: Con le ultime forze rimastemi ti scrivo che è
appena entrato un agente segreto di Utopia. Gli lascio l’incarico di spedirti
questa lettera. Sai, la nostra era una missione in incognito (i nostri
passaporti erano falsi) e il compito dello 007 è quello di far sparire i nostri
corpi senza lasciare traccia. Utopia deve rimanere un’utopia. Non dobbiamo
permettere agli uomini del nostro mondo di colonizzarla con la loro stupidità.
Potete ben immaginare che la prima reazione che ebbi
leggendo quella lettera fu di shock, incredulità. Inizialmente pensai a uno
scherzo (quando era più giovane Simone era un vulcano di idee nel realizzare
scherzi a amici e parenti), ma rileggendo altre cinque o sei volte quelle
parole mi convinsi che l’avventura di mio fratello era stata davvero vissuta e
purtroppo era giunta a termine. Il Morbo di Giacomo Kellerman alla fine aveva
vinto.
Quello che mi
aspettava da quel momento in poi lo scoprirete leggendo del mio viaggio nei
misteri del passato di Simone e dei suoi amici, un’indagine alla ricerca della
verità su Robby e dell’esistenza di Utopia. Quando a casa di Simone lessi le
pagine de “La Grande
Inculata ” mi ci vollero ore per riprendermi dalla violenza di
quelle rivelazioni; non potevo credere a ciò che era accaduto nella casa di
campagna di Gallo. Simone era uno scrittore fantasioso – almeno io lo reputavo
tale – così pensai che sicuramente stava creando uno dei suoi racconti o
romanzi migliori. Mio fratello era un’anima pura (uno dei motivi che secondo me
lo avevano fatto ammalare), un uomo troppo buono e intelligente per compiere
certe efferatezze, d’altro canto c’era una lettera che parlava chiaro e tutti i
particolari che conoscevo della sua vita inseriti ne “La Grande Inculata ”
erano reali.
Mi aveva
lasciato un compito oneroso, decidere cioè se pubblicare o meno quell’incipit
di romanzo (o storia vera di una tragedia). Dovevo quindi indagare sul vero o
presunto omicidio prima di prendere una decisione.
Decisi, per il
momento, di non far parola con nessuno della lettera, de “La grande Inculata” e
delle mie ricerche. La fine del viaggio di Simone coincise con l’inizio del
mio. Avevo paura, non ero pronta per un’avventura simile, ma come diceva lui,
quando la corrente ti trascina, lasciati andare. Da qualche parte arriverai.
II
Come ho già accennato, la prima cosa che feci dopo aver
letto la lettera, fu recarmi immediatamente
all’appartamento di Simone. Ricordo che mi trovavo a casa con Giulia e le stavo
dando la pappa quando suonò il citofono e il postino mi consegnò la
raccomandata. Finii di dare da mangiare alla bimba, poi aprii la busta. Riletto
più volte il suo contenuto e scemato lo sgomento telefonai a Villa Skreta per
chiedere a mamma se poteva tenere Giulia per un po’. Lando era a lavorare così
portai il nostro tesoro ai nonni e mi precipitai a casa di Simone.
Nella cassaforte dietro la stampa di Blake
trovai quello che mi aveva indicato: gli autoscatti, i diari, gli strati di
polvere e “La Grande
Inculata ”. Diedi un’occhiata agli autoscatti, chiedendomi se
negli ultimi tempi Simone fosse cambiato molto o se il fatto di aver trovato
una dimensione su misura ne avesse accentuato quell’espressione intensa e
sognante che lo caratterizzava. Cominciai quindi a leggere “La Grande Inculata ”
con attenzione, dopodiché, giunta al termine, mi sdraiai sul letto. Tutti gli aforismi
che mio fratello aveva segnato sui muri sembrarono vorticare velocissimi e per
poco non persi i sensi. Poi chiusi gli occhi e quando li riaprii tutto parve
essere tornato alla normalità.
Trascorsi le due
ore successive a vagare per l’appartamento in cerca di indizi. Mi sentivo come
trasportata in un film di detective. Su un taccuino che trovai in un cassetto
annotai alcuni aforismi che il buon Mone aveva scritto in rosso (mentre la
stragrande maggioranza erano scritti in nero) sulle pareti della stanza. Tra
questi:
“Scrivere non è una professione: è una vocazione
all’infelicità. Penso che un artista non possa mai essere felice.” (Georges
Simenon)
“Nessuno può sconfinare in un altro per il semplice
motivo che nessuno può accedere a se stesso.” (Paul Auster)
“La gente di solito si rifugia nel futuro per sfuggire
alle proprie sofferenze.” (Milan Kundera)
“Quando si tende a fare le cose che fanno tutti gli
altri si diventa tutti gli altri” (Charles Bukowski)
“La fantasia è madre della soddisfazione,
dell’umorismo, dell’arte di vivere”(Hermann Hesse)
“Se noi riconosciamo che errare è dell’uomo, non è
crudeltà sovrumana la giustizia?” (Luigi Pirandello)
“Il giorno in cui noi intellettuali o artisti stimeremo
qualcuno vorrà dire che abbiamo l’ego fuso e quel giorno smetteremo di essere
intellettuali o artisti” (Manuel Vazquez Montalban)
“È più facile morire di niente che di dolore. Al dolore
ci si può ribellare, al niente no.” (Susanna Tamaro)
“Quando compi trent’anni diventi tu il peggior nemico
di te stesso.” (Chuck Palahniuk)
“Non c’è nulla di più tragico, per l’individuo come per
i popoli, dell’abitudine alla mediocrità.” (Francesco Alberoni)
“Riempiti gli occhi di meraviglie, vivi come se dovessi
cadere morto fra dieci secondi!” (Ray Bradbury)
“Non credo che si debba amare il proprio lavoro. Se lo
si amasse, non sarebbe più un lavoro.” (John Updike)
“Quando non si riesce ad avere quel che si merita in un
mondo, lo si cerca in un altro” (Voltaire)
“Non è difficile essere solo se sei povero e fallito.
Un artista è sempre solo, se è un artista. No, un artista ha bisogno di
solitudine.” (Henry Miller)
“Sono sempre stato del parere che il lavoro duro è
semplicemente il rifugio delle persone che non hanno assolutamente niente da
fare.” (Oscar Wilde)
“La maggior parte degli uomini muoiono prima di essere
nati compiutamente. Essere creativi significa portare a compimento la propria
nascita prima di morire.” (Erich Fromm)
“Ricco è l’uomo che è molto, non l’uomo che ha molto!”
(Karl Marx)
“Chi va in giro lecca e chi sta a casa la lingua je se
secca.” (Pier Paolo Pasolini)
Mi fermo qui,
anche perché gli aforismi segnati in rosso saranno stati centinaia. Sul block
notes ne trascrissi un’altra ventina. In ognuno c’era qualcosa di Simone. In
fondo, se li aveva evidenziati dovevano averlo colpito, lasciando così
intravedere la sua visione della vita. Tra tutti, ne trovai uno sottolineato,
oltre che scritto in rosso:
“Ci sono molti morti nella mia vita, ma più morto di
tutti è il ragazzo che io fui.” (Georges Bernanos)
Lo sottolineai
anch’io, con l’intima convinzione che potesse essermi molto utile in futuro.
Più tardi, dopo aver frugato nei cassetti e negli armadi passai a controllare
la libreria. Ci saranno stati almeno duemila volumi e mi dissi che era proprio
un personaggio stravagante uno che collezionava solo i libri che non aveva
apprezzato.
Ad un tratto
squillò il cellulare: era mamma, preoccupata per la mia assenza prolungata. Le
avevo detto che andavo a fare un po’ di spesa e Giulia, che all’epoca aveva
otto mesi, cominciava ad essere nervosetta. Rimisi tutto in ordine nella
cassaforte e mi ripromisi di tornare il giorno dopo.
La mattina
seguente – un venerdì – dato che i nonni erano impegnati e Lando era come
sempre al lavoro nel suo ufficio di geometra comunale, tornai all’appartamento
con Giulia. Una volta addormentata ripresi il mio lavoro investigativo. Aprii
la cassaforte con la combinazione che Simone
mi aveva lasciato sotto il poscritto della lettera e cominciai a
sfogliare i diari. Quello che traspariva da quelle pagine era senz’altro lo
spirito di mio fratello, uomo sensibile, sincero, profondo, fantasioso,
sognatore, introspettivo, sarcastico, autoironico, intelligente, ma anche
insicuro, pessimista, incostante, accidioso, introverso, velenoso con chi gli
faceva dei torti, perfezionista, asociale per indole e per forza a causa del
Morbo (“vado molto fiero della mia asocialità innata” ha scritto su un diario).
Si sentiva un artista ma si vergognava ad affermarlo perché diceva che la gente
non avrebbe capito il suo concetto di artista, cioè un uomo con la tempesta
dentro che rischia quotidianamente di morire se quella tempesta non trova una valvola di sfogo per uscire.
Nelle pagine dei diari questa visione era lampante, come il pensiero ricorrente
dell’ingiustizia della vita, che premia spesso persone che non hanno nessun
valore ma si sanno vendere e schiaccia chi ha talento, cervello e cuore ma non
sa come smerciarli.
Simone scriveva
e sobillava per VIVERE, ma se nessuno ti capisce o peggio, ti ascolta,
rischi comunque di implodere. Chissà, anche questa potrebbe essere stata una
delle cause della comparsa del Morbo di Giacomo Kellerman, oltre alla fragilità
del suo carattere.
Per giorni
interi analizzai mio fratello dai diari. A volte portavo con me Giulia, altre
volte ero sola; non dicevo a nessuno dove andavo.
Com’è ovvio, per
la natura stessa di ogni diario segreto, trovai al suo interno cose che non
avrei mai immaginato Simone pensasse o facesse. Per esempio rimasi molto male
quando lessi che aveva fatto uso seppur saltuario di cocaina, o avesse fantasie
erotiche su quella “poco di buono” della mia ex collega alle poste Matilde, o
fosse stato a letto con la
Blatta insieme a Mastro Marasca (fatto inserito anche ne “La Grande Inculata ”),
o che pensasse che persone a lui care non lo avevano mai incentivato, anzi, gli
avevano messo sempre il bastone tra le ruote ogni qualvolta voleva prendere una
decisione. Dopotutto cos’è un diario se non la persona senza maschere? Niente
come un diario ti mostra lo spirito che abita in un individuo.
Una volta letti
tutti i libri che componevano la sua diarioteca, mi ero costruita la
base per partire alla scoperta di quello che chiamerò d’ora in poi il Grande
Mistero.
III
Per una settimana dunque, dal momento in cui ricevetti la
lettera, indagai sulla vita di Simone vagliando gli indizi che trovai nel suo
appartamento. Lessi e rilessi “La Grande Inculata”, esaminai approfonditamente
i diari, lessi i suoi racconti e valutai da una nuova prospettiva i suoi libri
“Cavalcando un fenicottero nano deforme” e “Dioniso misantropo”, cercai
riscontri negli aforismi, nei brutti libri della biblioteca, osservai
gli strati di polvere, implorai una rivelazione agli autoscatti, ma la
misteriosa trama di questa vicenda surreale non si dipanava. Trovai in un
cassetto della scrivania un elenco di libri belli che aveva letto e li
comprai. Nei giorni a seguire ne lessi il più possibile, partendo da “Opinioni
di un clown” di Boll, fino a “Gabriella garofano e cannella” di Amado, senza
però trovare nessi con l’isola di Utopia o i fatti della casa di campagna.
Cercai riscontri nella vita degli autori letti e negli autori degli aforismi ma
incontrai solo nebbia. La mossa successiva fu parlare con i ragazzi che avevano
partecipato alla fatidica cena.
Da qualche mese,
prima di rimanere incinta di Giulia, mi ero licenziata dal posto di impiegata
postale e mi ero dedicata al mestiere di casalinga, per cui quando i nonni
tenevano la bimba, avevo molto tempo a disposizione, tempo che in quel momento
impiegai contattando gli amici di mio fratello.
Il primo che
incontrai, recandomi a casa sua dopo aver fissato un appuntamento per telefono,
fu Ezio Buzzati detto Losco. A quanto ricordo e da quel che scriveva Simone sui
diari, Losco era uno degli amici con i quali mio fratello si intratteneva più
volentieri a parlare, soprattutto di argomenti seri o culturali. Rimase
paralizzato dal bacino in giù dopo un incidente, quando il presunto (per ora)
delitto era già stato perpetrato. Si dice fosse fatto di ecstasy e
probabilmente anche dopo la disgrazia capitatagli non aveva smesso di abusare
di droghe. Lo trovai in stato confusionale. Era stato mio compagno di classe
dalle elementari alle medie e vederlo in quelle condizioni mi fece una pena
indescrivibile. Non mi fu di grande aiuto; biascicava parole incomprensibili
inframmezzate dall’interiezione “vattelappesca”. Quando tirai fuori il nome
Robby il suo volto venne colto da un bagliore di spavento, l’unico cenno
espressivo che quei lineamenti devastati da cicatrici riuscirono a esternare.
Dopo mezz’ora di inutili domande e astruse risposte, salutai Ezio con una
tristezza infinita nel cuore.
Il Trucido,
soprannome di Teodoro Navarro, era morto suicida quando Simone era ancora con
noi. Contattai suo fratello Pasquale, che molto gentilmente acconsentì di
parlarmi del Teodoro degli ultimi tempi prima dell’insano gesto.
“Era molto
cambiato. Non rideva più, parlava poco. Non ci ha mai detto se era successo
qualcosa nella sua vita privata da indurlo in quello stato di depressione;
dopotutto la depressione non ha certo bisogno di “motivi apparenti” per fare la
sua comparsa, può colpire anche persone la cui vita sembra felice. Teo era
felice, lo posso dire senz’ombra di dubbio: una bella fidanzata, un lavoro
che amava, una famiglia unita che lo stimava, amici… Di punto in bianco il
buio. Fu una mazzata per noi, per i miei vecchi in particolare. Lasciò un
biglietto…”
A quel punto
Pasquale sparì in qualche vano dell’appartamento che divideva con la moglie e i
due figli piccoli e si ripresentò con il biglietto. Me lo porse.
Nulla potrà
tornare come prima.
Non posso più
vivere così.
Addio, Teo
“E di Simone?
Non avete più saputo nulla da allora, da quando partì per curarsi?” mi chiese
mentre ancora meditavo su quelle parole.
“No, non abbiamo
più avuto sue notizie. Ma sono certa che tornerà.”
Lasciai Pasquale
dopo un’altra oretta ringraziandolo per il tempo concessomi. A parte il
biglietto e la repentina metamorfosi di Teodoro non ottenni molte informazioni
interessanti.
Dalla partenza
di Simone, avvenuta tre anni prima – se partiamo dal periodo in cui mi misi a
far chiarezza sul Grande Mistero – altri tre suoi amici erano morti: Valerio
Resca (Turtlén), Michele Fermi (Zio) e Andrea Bongiovanni (Bongio).
Turtlén era
alcolizzato e morì di cirrosi neanche un anno dopo l’inizio del viaggio di
Simone. Tre settimane dopo il funerale di Valerio, Zio venne investito da un
camper mentre era fermo sulla corsia d’emergenza dell’ autostrada: era sceso
per controllare un pneumatico che credeva sgonfio ed era stato falciato. Bongio
lo ha portato via un infarto uno o due mesi prima l’inizio delle mie indagini,
a soli trent’anni, mentre era impegnato con le pratiche di divorzio con
Cristina.
Dai parenti di
Zio e Turtlén ricevetti un trattamento poco cordiale. Parevano infastiditi da
quella mia intrusione nel privato delle loro tragedie, però riuscii ugualmente
a sapere dalla mamma di Valerio che l’inizio della sua passione per l’alcol
coincideva all’incirca con il suicidio del Trucido e la tossicodipendenza di
Losco.
Mi interessai in
modo particolare al caso di Bongio, proprio colui che Simone aveva per così
dire risparmiato nel suo racconto-confessione, descrivendolo come l’unico non
pienamente colpevole nell’omicidio di Robby.
Mi vidi con
Cristina ai giardinetti pubblici di Castello d’Argile. Aveva con sé Helenio che
stava giocando con due amichetti.
“Stavamo per
divorziare Arianna, il nostro amore era finito da tempo nonostante indossassimo
una maschera quando uscivamo, per fare sembrare il nostro rapporto ancora
idilliaco. Da qualche anno poi, Andrea era scorbutico, arrogante, mi
apostrofava con parole volgari e si innervosiva per un nonnulla.”
“Sai dirmi
esattamente, se ricordi, quando cominciò ad essere così?” chiesi.
“Non saprei,
quattro, cinque, sei anni fa. Posso dirti che dalla morte di Teodoro Navarro in
poi è iniziato un inarrestabile logorio del nostro rapporto. Non c’era più
rispetto, amore; era subentrata la noia, l’apatia, il menefreghismo.
Ultimamente Andrea era trascurato anche nel vestire ed era spesso violento. Per
fortuna non è mai arrivato a picchiarmi, ma con le parole mi faceva molto male.
Forse… avrei preferito degli schiaffi! E Helenio ne soffriva tanto. Fui io a
decidere di divorziare.”
“Come la prese
Bongio?”
“Andrea non fece
una piega. Era come se fosse morto dentro.”
Morto dentro.
Dunque se ciò che aveva raccontato Simone era avvenuto davvero, neanche Bongio
si era salvato dalla maledizione.
Dopo Cristina
cercai di parlare con Lauro Rosini (Lennon) ma mi fu impossibile dato che si
era trasferito in Brasile con la sua ragazza Paolina a lavorare per la ditta di
prodotti per ufficio. Ottenni il suo numero di telefono, ricevendo in cambio
solo cornette riagganciate ogni qualvolta gli dicevo chi ero.
Mi vidi con Maso
e Gallo al Sirius, il locale che frequentava abitualmente Simone, in una rara
serata di libertà concessa ai due maritini da quei cerberi delle loro mogli.
Rimasi turbata dalla loro reticenza. Negarono ogni mia parola (o velata accusa)
riguardo droga, prostitute, vandalismi, e quando parlai apertamente di “una
festa in campagna da te Gallo, avvenuta alcuni anni addietro” iniziarono a far
scena muta, condendo la pantomima con sguardi di scherno nei miei confronti.
Era chiaro come il sole che quei due nascondevano qualcosa, ma non avrebbero
parlato neanche sotto tortura.
Sperai di sapere
qualcosa di più da Mastro Marasca, alias Antonio Zavatti. Faceva ancora il
benzinaio e adesso era fidanzato con Eleuteria Magri detta la Blatta. Li andai a
trovare a casa di Mastro Marasca. Parlammo per un pomeriggio intero; quando
chiesi – per saggiare la loro onestà – se era avvenuta davvero quell’orgia in
una camera d’albergo di Rimini, sia Eleuteria che Antonio non negarono, anzi,
ricordarono divertiti quel triangolo.
“Cara Arianna”
disse Mastro Marasca, “sono cose che capitano, soprattutto quando si è giovani
e in piena tempesta ormonale. Non c’è niente di strano o perverso.”
“Certo, certo,
ma… vi è mai successo di partecipare ad altre… chiamiamole pazzie, tipo in
campagna da Gallo.”
A quel punto
Antonio tossicchiò e chiese, anzi ordinò a Eleuteria di andare in cucina a
preparare due caffè.
“Non so di cosa
parli” rispose seccamente una volta rimasti soli. E da quel momento in poi
capii di avergli fatto chiudere a chiave una porta nel suo inconscio e che non
sarei più riuscita a far trapelare una sola notizia utile. Perse pure il
sorriso per la restante ora in cui mi intrattenni.
Dopo venti
giorni di interrogatori, se così posso definirli, mi erano rimasti Capocchia e
Gisto, al secolo Lorenzo Bonini e Nicola Popolo.
Capocchia, dopo
aver cambiato mille lavori, faceva l’aiuto cuoco in un ristorante di
terz’ordine della periferia di Bologna. Dicono che abbia fatto qualche
apparizione in alcuni film porno casalinghi, ma quando gliel’ho chiesto (avendo
con lui una certa confidenza essendo anche amico mio), davanti a una Coca
seduti a un tavolino di un bar cittadino, ha negato. Come ha negato ogni altro
riferimento a “strane feste in case di campagna”.
Un po’ depressa
per la reticenza degli amici di Simone, trovai nelle parole di Gisto ciò che
cercavo.
“Io non ti dirò
nulla… Non posso dire nulla… Ma se hai parlato con gli altri e non sei stupida,
avrai senz’altro capito che qualcosa di terribile è successo.”
Parlavo con
Gisto sul camion della nettezza urbana, mentre caricava e svuotava i cassonetti
dell’immondizia. Restai circa dieci minuti e prima di lasciarmi disse: “Guarda!
Spazzatura, sudiciume, resti… Ci sono sempre resti, resti dappertutto.”
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